a cura di Controtempi
«La crisi non avviene semplicemente per il confronto diretto esterno fra società e natura: essa si traduce in formazione di contraddizioni che acutizzano e fanno esplodere antagonismi interni alla società»
M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Massari editore, Roma 1993
Indice
- FFF e il sentimento ecologista
- Antropocene…
- …o Capitalocene
- Un problema più profondo
- Svoltare a sinistra
- Appendice
- Una piccola bibliografia
1. FFF e il sentimento ecologista
Il 15 marzo 2019 decine di milioni di persone, soprattutto giovani, sono scese in piazza in tutto il mondo per manifestare contro il cambiamento climatico. Il successo di queste manifestazioni è stato replicato e addirittura superato il 24 maggio e il 27 settembre. A suo modo, il movimento nato in questi mesi è un fatto inedito nella storia contemporanea. Una mobilitazione che spontaneamente si sviluppa a livello mondiale, in modo tanto ampio e tanto trasversale, non si era avuta nemmeno in occasione delle guerre in Afghanistan e in Iraq, o, guardando a un passato più lontano, negli anni ‘60 e ‘70. È un movimento che sembra sorto dal nulla: un movimento senza un passato e venuto alla luce così, come un fungo, senza preavviso, grazie alle azioni di Greta Thunberg. Eppure l’ampiezza e il successo delle manifestazioni in tutto il mondo mostrano come un certo sentimento ecologista sia già penetrato, in sordina, in strati importanti della popolazione nel corso degli ultimi anni, e non aspettasse che un segnale per manifestarsi. Si tratta di un bagaglio di idee positivo, che però non può rimanere allo stadio di senso comune, di coscienza irriflessa, ma che al contrario è bene analizzare, sviluppare, e chiedersi quali problemi apra e quali conseguenze nasconda al proprio interno.
2. Antropocene…
L’inquinamento, la distruzione ambientale, i mutamenti climatici e tutto ciò che oggi riassumiamo sotto il nome di crisi ecologica non sono un fatto nuovo. Se le radici del problema affondano molto indietro nel tempo, i tentativi di porvi rimedio sono quasi trentennali: il famoso protocollo di Kyoto, primo trattato internazionale a occuparsi del surriscaldamento globale è stato siglato nel 1997. Già negli anni ‘80 il biologo Eugene Stoemer affermava che siamo entrati in una nuova epoca geologica, l’Antropocene: l’era in cui l’uomo è autore dei processi di mutamento dell’ecosistema. Il termine venne poi ripreso nel testo del premio nobel per la chimica Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, e da allora è entrato sempre più a far parte del linguaggio scientifico, fino a divenire di uso comune. Pare quasi ovvio usarlo. Eppure, nella sua ovvietà, Antropocene è un termine molto generale, vago addirittura. Chi è il responsabile di questa nuova era geologica? Tutti noi, tutta l’umanità intesa in modo astratto? E perché il problema si è presentato con la gravità che conosciamo solo negli ultimi decenni? Questo, in sé, il termine “Antropocene” non lo dice. Sembra ovvio, e nella sua ovvietà incontestabile: eppure rappresenta una visione astratta del problema.
3. … o Capitalocene?
Le società umane, nel corso della storia, non hanno avuto un eguale impatto ecologico. Se tutte le civiltà hanno un’impronta ecologica (consumano delle risorse naturali), se l’uomo nel suo cammino ha sempre dominato la natura per i suoi fini, è solo dalla cosiddetta seconda rivoluzione industriale che si sono poste le condizioni di una mutazione strutturale dell’ecosistema. L’immenso sviluppo dell’industria ha permesso una produzione di merci in quantità mai viste prima; ha permesso l’urbanizzazione di aree sempre più vaste, collegamenti sempre più capillari per il trasporto delle merci. Ha accelerato dei processi già insiti nella società precedente e li ha portati a espandersi in tutto il mondo. Alfiere di questa espansione, però, non è stata l’industria in sé: non è la macchina, la tecnologia ad aver scatenato, di per sé, uno sviluppo inarrestabile e funesto, come vorrebbe una certa vulgata nostalgica delle società passate. È stato un rapporto sociale, il modo di produzione capitalistico, ad essere il motore di questo processo di accelerazione e sconvolgimento su scala globale. È la società borghese ad aver impresso il suo marchio sul mondo, attraverso uno sviluppo delle forze produttive inteso a generare sempre più guadagno per le grandi compagnie, le grandi aziende, i capitani d’industria. È lo sviluppo caotico e irrazionale del modo di produzione capitalistico, senza freno e incurante dei destini delle popolazioni, ad aver generato le megalopoli, ad aver creato enormi disuguaglianze tra pochissimi uomini che detengono la maggior parte delle risorse e la maggioranza dell’umanità che vive ben al di sotto della soglia di povertà.
Questa spropositata disuguaglianza sociale è rilevata ormai da tempo. È anni che Oxfam stila rapporti che sempre di più confermano la tendenza a una divaricazione tra un pugno ristrettissimo di uomini (meno dell’1% della popolazione mondiale detiene più del 50% della ricchezza mondiale) e il resto dell’umanità (circa il 50% della popolazione mondiale vive con meno di 5,50$ al giorno). L’uomo per la gran parte della sua storia ha vissuto in società gerarchiche, in cui il potere, la possibilità di influenza degli individui sul mondo, non era, e non è, ripartito allo stesso modo. E mai come oggi la lotta per il predominio di questo ristretto numero di persone avviene su scala globale, attraverso la politica delle nazioni, ma anche e soprattutto il controllo di grandi gruppi economici, di banche, aziende, settori della produzione e della distribuzione, i quali sono direttamente coinvolti nella crisi ecologica. Oltre a generare povertà, miseria, migrazioni, guerre, un sistema produttivo basato sul profitto genera anche inquinamento: il 70% delle emissioni di gas serra è prodotto da 100 multinazionali. Come può essere tutta l’umanità responsabile di processi che solo una parte di essa, una parte minoritaria ma estremamente potente, ha la possibilità di controllare?
È per questo che sarebbe opportuno, come ha proposto lo storico dell’ecologia Jason Moore, parlare di Capitalocene. Ciò non vuol dire deresponsabilizzare i singoli individui, e negare che l’impronta ecologica sia dovuta anche al comportamento di grandi masse di popolazione. Ma significa ristabilire delle proporzioni, e suggerire inoltre che spesso le grandi masse agiscono in maniera non ecologica semplicemente perché non hanno alternativa. Perché le scelte individuali, dall’acquisto di un prodotto, alla mobilità, alla vita quotidiana, sono determinate dal complesso della società. Vi è una responsabilità individuale, ma questa si scontra con un sistema di potere molto più imponente e decisivo.
4. Un problema più profondo
Dal protocollo di Kyoto sono passati ventidue anni e ventidue Conferenze delle Parti (COP). Se da un lato una certa consapevolezza del problema è penetrata almeno superficialmente in diversi strati della popolazione, dall’altro è evidente che le soluzioni che sono state messe in campo non sono state all’altezza. Non solo non hanno invertito la tendenza alla devastazione ambientale, ma nemmeno sono riuscite ad attenuarla. Ogni volta che le istituzioni si sono poste degli obiettivi per la «riconversione ecologica», tali obiettivi non sono stati raggiunti. Gli accordi di Parigi, è notizia di novembre, sono stati completamente disattesi da tutte le nazioni del G201. Perché?
Nella sua semplicità la risposta è persino banale: perché è inevitabile.
Immaginiamo che, in tutto il mondo, contemporaneamente o quasi, i governi siano disposti a imporre dei limiti ferrei che prevengano la distruzione dell’ambiente. Quali sarebbero, ad oggi, le conseguenze? Crollo della produzione, fuga dei capitali verso Stati in cui i limiti sono meno rigidi, contrazione degli investimenti dove i limiti sono più rigidi, crollo dei consumi, licenziamenti, disoccupazione… In una parola: crisi.
Una crisi economica e sociale di dimensioni inimmaginabili. Se solo il rallentamento della produzione nell’ex-Ilva dal 2012 a oggi ha significato la perdita dell’1,35% del PIL italiano2, proviamo a immaginare che conseguenze avrebbe la limitazione della produzione in tutto il mondo di tutte le aziende che in qualche modo sono responsabili della distruzione ambientale: le aziende edilizie3; le aziende automobilistiche4; le aziende agricole5…
Il fatto è che le aziende non inquinano per sbadataggine o poca informazione da parte dei loro consigli di amministrazione, e sanno da tempo ciò che fanno6; inquinano perché se non lo fanno falliscono. Tutte le aziende, anche quelle più “ecologiche” in realtà, subordinando la propria attività alla necessità di fare profitto, distruggono la natura.
Certo, la transizione ecologica potrebbe avere un effetto contenitivo nei confronti delle manifestazioni più distruttive e virulente della crisi ecologica. Ma non risolve il problema perché salva le ragioni profonde per cui siamo nella situazione in cui siamo: il profitto individuale, le disuguaglianze, la necessità di produrre, muovere e consumare sempre più merci in sempre meno tempo, in modo che questo si converta in valore, e che questo valore poi generi nuovo valore con cui continuare a produrre e consumare e così via all’infinito… È questa spirale che va arrestata. In altre parole, è la modalità complessiva di produzione e consumo delle merci che va radicalmente cambiata.
5. Svoltare a sinistra
Cambiare radicalmente la modalità di produzione e di consumo quindi, ma chi e come dovrebbe farlo? È chiaro che né governi né aziende sono disposti davvero ad agire radicalmente per uscire dalla crisi ecologica. Metterebbe in discussione la loro fede nella bontà di questa società o, peggio, i loro privilegi, la possibilità di continuare ad arricchirsi distruggendo l’ambiente e l’umanità.
Se non è chi ha già il potere che può cambiare il mondo, allora il compito deve essere di chi il potere non ce l’ha. Siamo noi: studenti e lavoratori, che subiamo ogni giorno le conseguenze dello sfruttamento che abbiamo la possibilità e il dovere di costruire una società diversa. Una società nella quale la produzione non sia finalizzata al profitto privato ma al soddisfacimento dei bisogni umani, nella quale lo sfruttamento degli esseri umani lasci il passo alla libera associazione dei produttori, nella quale alla distruzione della natura venga contrapposta la cura per il mondo, la riproduzione delle condizioni che permettono all’uomo stesso di vivere.
Chiamiamo questo progetto di società: ecosocialismo. Non la somma di ecologia e di socialismo, ma l’affermazione chiara e netta che una lotta per la difesa dell’ambiente non può non andare di pari passo con una lotta per la giustizia sociale.
La costruzione di una società ecosocialista passa attraverso la rottura con gli attuali rapporti sociali, la messa in discussione dei privilegi, la socializzazione della proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione, la gestione collettiva e democratica della produzione e del consumo.
Ma come realizzare questo progetto?
La risposta è nelle mobilitazioni di questi mesi e nelle rivendicazioni avanzate dall’Assemblea nazionale di Fridays For Future del 5 ottobre 2019. Rivendicazioni che devono divenire le nostre bandiere e che devono essere ampliate e approfondite.
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Non vogliamo più sussidi sui combustibili fossili. Vogliamo una tassazione che colpisca i profitti della produzione e non solo il consumo. Pretendiamo l’obiettivo emissioni zero entro il 2030 per l’Italia.
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Vogliamo la decarbonizzazione totale entro il 2025 passando alla produzione energetica totalmente rinnovabile e organizzata democraticamente con le realtà territoriali. Siamo fermamente contrari a ogni infrastruttura legata ai combustibili fossili, come il metanodotto in Sardegna e il TAP in Puglia.
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Vogliamo la dismissione di ogni impianto inquinante attualmente operativo, come l’ILVA. Tutte le fonti inquinanti devono essere chiuse e bonificate, sotto controllo popolare e pagate da chi ha inquinato. Le aziende inquinanti devono chiudere, ma devono essere garantiti posti di lavoro e tutele a tutte quelle persone coinvolte nella transizione. Non accettiamo il ricatto tra lavoro, salute e tutela dell’ambiente.
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Vogliamo che vengano riconvertiti, senza indennizzi, le monocolture e gli allevamenti intensivi, modelli del tutto insostenibili e a cui è necessario sostituire un’agricoltura e un allevamento biologici. Anche in questo caso la transizione dev’essere gestita da chi lavora, secondo un modello associativo ed egualitario.
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Vogliamo un investimento nazionale su un trasporto pubblico sostenibile, accessibile a tutti e di qualità. Vogliamo dei trasporti a emissioni zero e necessariamente gratuiti. Un trasporto nazionale e territoriale che rispecchia i bisogni sociali, organizzato e pianificato secondo un processo di coinvolgimento democratico di tutte le abitanti e di tutti gli abitanti.
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Vogliamo un cambio di rotta sostanziale per quanto riguarda il sistema d’istruzione e il mondo della ricerca. Esigiamo un ripensamento della didattica in ottica ecologista e che si investa sulla ricerca riconoscendo il valore dei saperi nei processi trasformativi della realtà. Riconosciamo la centralità di scuole e università nel processo di cambio di sistema per il quale stiamo lottando. Non vogliamo che il MIUR faccia operazioni di greenwashing, ma che sospenda immediatamente ogni accordo con le multinazionali e con le aziende inquinanti.
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Vogliamo la cessazione e la progettazione di ogni grande opera inutile e dannosa, intesa come infrastruttura, industria e progetto che devasta ambientalmente, economicamente e politicamente i territori senza coinvolgere gli abitanti nella propria autodeterminazione. Sosteniamo quindi ogni battaglia territoriale portata avanti dai tanti comitati locali, come No-TAV per Val di Susa, No-Grandi navi per Venezia, No-Muos per Catania e Siracusa, No-TAP per Lecce e Stopbiocidio per Napoli e la terra dei fuochi, Bagnoli Libera contro il commissariamento, la lotta all’Enel per Civitavecchia, la Snam per l’Abruzzo, il Terzo Valico per Alessandria. Rifiutiamo ogni speculazione sullo smaltimento dei rifiuti, sul consumo del suolo e quelle infrastrutture che causano dissesto idrogeologico. Pretendiamo che l’unica grande opera da portare avanti sia la bonifica e la messa in sicurezza dei territori.
Per realizzare questi obiettivi è necessario un radicamento maggiore del movimento ecologista nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle università. È necessario ampliare e consolidare la struttura del movimento già esistente, in modo da formare una struttura capillare, che parta dal basso e costituita in modo chiaro e democratico, a tutti i livelli: locale, nazionale e internazionale. È necessario che il movimento di Fridays For Future intercetti i grandi movimenti che stanno attraversando oggi il mondo, come in Cile, in Ecuardor, in Iraq, Iran, Libano, e li porti a un livello superiore.
Mobilitazione permanente e organizzazione! La questione ecologica sarà sempre più determinante; le contraddizioni di questa società esploderanno in maniera sempre più virulenta. La risposta dev’essere la costruzione di una società totalmente diversa. Una società libera, che metta al centro i bisogni e non il profitto, che rompa che rompa con il dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Una società ecosocialista.
Appendice – La contraddizione tra capitale e natura
La natura umana
L’uomo è parte della natura: questa banalità è anche un’imprecisione. L’uomo non è parte della natura, poiché sia “uomo” sia “natura” sono astrazioni, concetti, categorie logiche (ossia proprie del discorso umano). L’“uomo”, la “natura” non esistono: esistono gli enti naturali, i differenti individui umani, animali, piante… Nel loro rapportarsi reciproco gli esseri viventi e non viventi costituiscono degli ecosistemi.
Ma come una foresta non è la somma degli alberi che la compongono, ma è una totalità con sue proprie tendenze di sviluppo e mutamento, così gli ecosistemi non sono la somma degli enti naturali, ma un complesso organismo in cui ciascun elemento è in relazione con se stesso, con gli altri elementi e con l’ecosistema (la totalità) nel suo complesso.
Ora, l’uomo è innanzitutto un’ente naturale. Lo è dal punto di vista della storia della sua evoluzione, come insegna Darwin, e lo è perché le condizioni che rendono possibile la sua riproduzione come individui e come specie sono condizioni naturali: respiriamo aria, beviamo acqua, mangiamo altri animali e altre piante, siamo colonizzati da miliardi di microrganismi che rendono possibile la nostra stessa riproduzione individuale…
Ma, nel porsi come ente naturale, l’essere umano nega immediatamente la sua naturalità. L’uomo è natura ma è natura autocosciente e questo lo differenzia da tutti gli altri esseri viventi7, lo rende altro rispetto al mondo naturale.
Ora, il processo di riconoscimento di sé come soggetto (l’autocoscienza) non è l’esito della volontà divina né salta fuori dal nulla. Esso passa attraverso la trasformazione finalizzata del mondo, attraverso la riduzione delle cose a nostra misura8. È solo trasformando ciò che ci circonda in base a un progetto che possiamo (ri)conoscerlo come oggetto (e quindi fare della scienza) e (ri)conoscerci come soggetti.
Senza lavoro, ossia trasformazione finalizzata del mondo, non solo non si dà alcun prodotto culturale, ma nemmeno la possibilità stessa dell’essere umano in quanto essere umano. Senza lavoro l’essere umano è ricacciato a bruto, a mero ente naturale, formalmente e sostanzialmente indistinguibile da un cane. Per questo è necessario lottare per una società nella quale i lavoratori possano autodeterminarsi collettivamente nell’attività lavorativa: per conquistare così anche la loro vera natura umana.
La forza impersonale del capitale
Nel nostro scritto abbiamo parlato di Capitalocene. Usare quest’espressione significa mettere il dito nella piaga, sottolineare la contraddizione che oggi emerge sotto forma di crisi: quella tra capitale e natura. Intanto però una precisazione. Quando parliamo di capitale non parliamo tanto di una quantità di denaro, di un insieme di strumenti, macchine o merci. Il capitale è essenzialmente un rapporto sociale. Un rapporto specifico, sorto ad un certo punto della storia dell’umanità, fondato innanzitutto sulla subordinazione della forza-lavoro incarnata (cioè dei lavoratori) al ciclo di auto-valorizzazione della ricchezza astratta (incarnata nelle figure sociali dei capitalisti, più o meno associati). Fenomenicamente questo appare come smania di profitto, feticismo della merce, culto del dio-denaro, ecc.
Non è possibile in questa sede dilungarci in un’ampia critica dell’economia-politica. Tuttavia è necessario spendere due ulteriori righe per tratteggiare alcune caratteristiche proprie del modo di produzione capitalistico.
Dal punto di vista della ricostruzione logica del processo di produzione e consumo, il capitale appare in primo luogo come semplice ricchezza astratta, come denaro. Indifferente ad ogni determinazione che non sia la quantità (il quantum), la somma di denaro, se non vuole svalutarsi, deve farsi carne e sangue: deve cioè venir incorporata in un’attività produttiva, dev’essere investita.
Il denaro viene così usato per comprare l’equivalente del suo valore in mezzi di produzione, materie prime e salari. In questo momento e soltanto in questo momento il denaro si trasmuta in capitale. Prima era solo il segno universale del valore, ora è attività produttiva. Ma l’attività produttiva è sempre determinata, ossia presuppone sempre un certo rapporto sociale di produzione. La quota di capitale destinata ai salari compra la forza-lavoro (ossia la capacità e il tempo di lavoro dei lavoratori), usata per produrre le merci. Ciò significa avere una forza-lavoro disponibile, libera da altri vincoli che non siano quelli dettati dal fatto che i lavoratori hanno la necessità di vendersi per non morire di fame. Questa disponibilità non però data in natura, è frutto di un processo storico, un processo che altrove è stato descritto9 e su cui non è il caso di soffermarci in questa sede. Ciò che importa dire è che soltanto grazie alla “messa a lavoro” della forza-lavoro i mezzi di produzione e le materie prime non giacciono inutilizzate: venendo usati, prendono vita.
Ora, la pietra di misura della bontà dell’investimento però non è il servizio reso alla collettività, bensì il margine di profitto che il capitale immagina di ricavare da quell’investimento. Poiché nessuno investe una quantità di denaro X sapendo che, dopo un certo periodo di tempo, ricaverà la stessa quantità di denaro o peggio una quantità inferiore, l’unica attività produttiva sensata in una società dominata dal modo di produzione capitalistico è quella profittevole o, in altre parole, è quella in cui è possibile ottenere una quantità di denaro maggiore rispetto al punto di partenza.
Il fine della produzione è quindi il profitto, indipendentemente dall’effettivo soddisfacimento dei bisogni umani. È evidente che quest’affermazione non va interpretata in senso meccanico: se una merce fosse del tutto priva di utilità, di un valore d’uso, non verrebbe prodotta. Tuttavia, la merce in questione non verrebbe prodotta non perché priva di un valore d’uso, bensì perché non potrebbe essere venduta, quindi realizzare il valore in essa incorporato. Il valore resterebbe così cristallizzato nella forma-merce senza tornare ad essere denaro, segno universale e astratto del valore. Il processo di produzione e consumo, mancando del momento del consumo sarebbe incompleto.
Se però, viceversa, il valore incorporato nella merce viene realizzato e il ciclo di produzione e consumo giunge a termine, il capitale viene reintegrato. Come detto, al termine del processo il quantum di denaro in possesso del capitalista non è identico al quantum con cui aveva iniziato: nessuno investe una certa somma di denaro per ottenere la stessa cifra. Il capitale ottenuto è allora maggiore, e questo “di più” è il profitto (apparentemente sorto per partenogenesi, in realtà tempo di lavoro non retribuito che viene rubato ai lavoratori). Da denaro che era, segno astratto di valore, il capitale si trasforma in un processo di metamorfosi e – dopo essere stato materie prime, mezzi di produzione, salario, merce – torna finalmente ad essere denaro, di nuovo segno astratto di valore.
Sottolineare il carattere astratto del denaro non è un vezzo. Il denaro è l’alfa e l’omega del processo produttivo in una società capitalistica. Esso è condizione di possibilità (senza il denaro iniziale non si può investire) ed è il fine del processo di produzione. Il suo carattere astratto si riflette nel capitale, il quale ha una forza astrattiva nei confronti della società nel suo complesso. Il lavoratore, come ricordato prima, è per il capitale mera forza-lavoro astratta, senza ulteriori determinazioni, pura capacità di lavorare per un certo tempo (tempo che deve essere esteso, dilatato, reso utile ai suoi scopi il più possibile) indipendentemente dall’oggetto specifico del suo lavoro; un fiume è semplicemente merce in potenza o in atto (per la sua capacità per esempio di produrre energia elettrica che verrà venduta o per la riserva d’acqua da imbottigliare e commercializzare che incarna, ecc.), una foresta è denaro in potenza (per il legno che si può tagliare e vendere) e così via. Laddove non viene operato questo processo astrattivo in positivo, viene operato in negativo. Una foresta, ad esempio, è un limite sui generis per la coltivazione e come tale va abbattuta, uno stretto è un limite per il trasporto delle merci e come tale va sorpassato con un ponte, lo stesso spazio e lo stesso tempo in generale sono visti come limiti e vanno pertanto accorciati, ridotti, velocizzati, distorti.
Sotto il dominio del capitale, ogni aspetto dell’esistenza (oggetto o attività) è ricondotto all’astratta determinazione della quantità di denaro cui esso corrisponde, è mercificato, sussunto alla logica impersonale, astratta della valorizzazione di capitale. Il capitale si fa potenza impersonale in grado di piegare ai propri bisogni il cielo e la terra, indifferente alle qualità specifiche di ciò che sussume e in grado di operare un processo di metamorfosi su tutto ciò che tocca.
Ora, queste tre caratteristiche del modo di produzione capitalistico (auto-valorizzazione del capitale, produzione finalizzata al profitto, capitale come potenza astratta) sono particolarmente rilevanti per il nostro discorso sulla contraddizione capitale-natura.
La contraddizione tra capitale e natura
In che modo il capitale si rapporta al mondo naturale? A questo punto, dare una risposta dovrebbe essere relativamente facile. Potenza che pare muoversi di moto proprio e inarrestabile, il ciclo di auto-valorizzazione del capitale sussume alla propria logica il mondo naturale secondo due modalità: in positivo si appropria delle risorse di cui necessita, in negativo oltrepassa ogni limite che gli vien posto dinnanzi. Questo rapporto è unilaterale, è colto cioè solo dal punto di vista delle esigenze capitalistiche. Esigenze capitalistiche intese sia nel senso generale di modo produzione capitalistico, sia nel senso particolare di singolo capitale (azienda, investimento, ecc.10). Un’attenzione, una cura, una considerazione per le conseguenze delle azioni che vengono dispiegate sono al di fuori della logica stessa di valorizzazione. L’inquinamento, l’esaurimento delle risorse, le distruzione di ecosistemi e tutto ciò che genericamente potremmo definire come “negativo” sono, quando va bene, considerate delle “esternalità”, la cui soluzione è demandata alla società nel suo insieme: privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.
Maggiore poi è la disponibilità di una risorsa, minore il tempo di lavoro necessario per appropriarsene, più accentuata sarà l’unilateralità dell’appropriazione. L’acqua dei fiumi usata come deposito in cui gettare i reflui o per raffreddare i macchinari delle fabbriche o l’aria che respiriamo sono due ottimi esempi di quanto andiamo dicendo: virtualmente gratuite, vanno incontro ad un processo di degradazione inarrestabile fin da quando è sorto l’attuale modo di produzione (già nell’Ottocento gli ispettori sanitari del governo inglese denunciavano un inquinamento di Londra, e in particolare del Tamigi, impressionante).
All’interno di questo meccanismo infernale, ogni vincolo posto da soggetti “esterni” (lo Stato, la società civile11) è insostenibile. Non per la cattiva volontà dei capitalisti, ma perché il vincolo frena il ciclo di auto-valorizzazione, nega la possibilità stessa dell’appropriazione e non può non avere come conseguenza una potenziale crisi economica e sociale. È quel che scrivevamo nella prima parte del documento.
Ora, a differenza del passato, oggi il globo si trova completamente avviluppato nella rete tessuta dal capitale. Non esiste più uno spazio “vergine” da conquistare, come poteva essere anche solo settant’anni fa. Questo ha due conseguenze: la prima è la strutturale impossibilità di rimandare lo scoppio della crisi ecologica, la seconda è il nesso tra crisi ecologica e le scelte di politica (e di politica-economica) fatte da quei soggetti che abbiamo definito “esterni” e in particolare le scelte fatte dagli Stati in relazione al movimento dei capitali nel mondo. È quest’ultimo il problema dell’imperialismo, ossia della lotta per la spartizione delle risorse e della forza-lavoro che i capitali e gli Stati intraprendono tra loro. Alla luce di questa dinamica si comprende la guerra in Libia e la divisione in aree di influenza tra Italia e Francia, le operazioni sporche di ENI in Nigeria e Algeria, l’intervento Russo in Siria al fianco di Bashar al-Assad, la guerra turca contro il Kurdistan, la Via della Seta cinese e gli investimenti miliardari in Africa…, la lista si potrebbe allungare all’infinito.
Dato il carattere globale, internazionale, del modo di produzione capitalistico, una lotta contro questo Moloch non può che trascendere gli angusti limiti nazionali. Come scrivevamo precedentemente: la risposta all’attuale crisi dev’essere la costruzione di una società ecosocialista: una società libera, che metta al centro i bisogni e non il profitto, che rompa che rompa con il dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Una piccola bibliografia
Perché ancora Marx?
D. Bensaïd, Marx istruzioni per l’uso, Ponte alle Grazie 2010
La critica dell’economia politica
C. Cafiero, Compendio del “Capitale”, Savonà e Savelli, Roma 1973
K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, vol. I, a cura di R. Fineschi, La Città del Sole, Napoli, 2004
E. Mandel, Introduzione alla teoria economica marxista, Massari Editori, Bolsena 2001
Il rapporto uomo-natura
A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Ed. Punto Rosso, Milano 2017
G. Sgro’, Natura, storia e linguaggio. Studi su Marx, La città del Sole, Napoli 2019
La contraddizione capitale-natura
T. Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Nuove Edizioni Internazionali, Milano 1989
H. Lefebvre, La produzione dello spazio, PGreco, Milano 2018
H. Lefebrve, Il diritto alla città, vol. I, OmbreCorte, Verona 2014
H. Lefebrve, Il diritto alla città. Spazio o politica, vol. II, OmbreCorte, Verona 2018
M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo, Massari editore, Roma 1993
M. Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006
D. Tanuro, L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo, Alegre edizioni, Roma 2011
Note
1Wired, Nessun paese del G20 sta rispettando gli accordi sul clima di Parigi, 12 novembre 2019.
2Il Sole 24 ore, Ex Ilva: dai Riva a ArcelorMittal, storia di un declino costato 23 miliardi di Pil, 5 novembre 2019.
3«Tra il 2017 e 2018 in Italia il consumo di suolo ha riguardato 51 chilometri quadrati, con una media di 14 ettari al giorno (un’estensione di circa 19 campi da calcio coperta da superfici artificiali al giorno). Si mantiene la velocità di trasformazione del territorio registrata tra il 2016 e il 2017, ovvero 2 metri quadrati di suolo perso irreversibilmente ogni secondo» (Arpa, Il consumo di suolo in Italia: sintesi. Stato e trasformazioni in atto, https://webgis.arpa.piemonte.it/secure_apps/consumo_suolo/index.html).
4«Nel 2018 il settore automobilistico ha prodotto il 9% delle emissioni globali di gas serra: più di tutta l’Unione Europea» (Greenpeace, Ecco come l’industria automobilistica incide sui cambiamenti climatici, 11 settembre 2019).
5«Un terzo del suolo terrestre è gravemente degradato a causa dell’agricoltura. Lo sostiene un recente studio sostenuto dalle Nazioni Unite [il Global Land Outlook] e pubblicato sul Guardian, dove si invoca senza mezzi termini l’abbandono dell’odierno modello agricolo “intensivo” e “distruttivo” che fa perdere suolo fertile a un ritmo di 24 miliardi di tonnellate l’anno» (Slow Food, Terra di nessuno. L’agricoltura intensiva ha inaridito un terzo del suolo fertile, 28 settembre 2017).
6https://www.facebook.com/TheIndependentOnline/videos/vb.13312631635/1109369202596970/?type=2&theater
7Non è un caso che per esempio le grandi religioni monoteistiche affermino la vicinanza dell’uomo con il sovrannaturale (l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza…). In queste credenze viene condensata tutta la percezione dell’essere umano come di un qualcosa del tutto differente dal resto del mondo animale e vegetale. Nel falso c’è del vero.
8«L’uomo è misura di tutte le cose» disse Protagora. In modo unilaterale e quindi parziale aveva colto un punto essenziale del rapporto uomo-natura.
9Cfr. tra gli altri: K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, vol. I, a cura di R. Fineschi, La Città del Sole, Napoli, 2004 (in particolare il capitolo XXIV “La cosiddetta accumulazione originaria”), e E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, trad. di B. Maffi, Il Saggiatore, Milano 1969.
10Essendo il modo di produzione capitalistico sostanzialmente un modo di produzione individualistico, il processo generale di produzione viene demandato alle singole azioni individuali. Da questo discendono una serie di conseguenze (anche psicologiche) non indifferenti, ma su cui non ci soffermeremo in questa sede. Vale la pena ricordarne alcune sinteticamente: impossibilità di una pianificazione economica, sperpero, indifferenza per le sorti della collettività…
11Soggetti che esterni non sono mai, ma che dal punto di vista del capitale appaiono tali.