Pubblichiamo questa interessante risposta all’articolo “Oppressi di tutto il mondo…” pubblicato su questo blog, nella convinzione che alimentare il dibattito su alcuni temi non possa non apportare numerosi vantaggi al lettore e alla lettrice di questo blog.


di Lupo – Controtempi

Facciamo un po’ di mitologia. C’era un tempo in cui chi si diceva socialista o comunista credeva che l’umanità fosse divisa in due campi contrapposti. Da una parte c’erano le classi dominanti, dall’altra le classi dominate. Le prime opprimevano le seconde.
L’oppressione, poi, si manifestava in vari modi: era innanzitutto oppressione economica, sicuramente politica, certamente ideologica e culturale…
Le classi dominate, se volevano rompere una volta per tutte con l’oppressione che le schiacciava dovevano abbattere il potere delle classi dominanti. Solo allora avrebbero potuto costruire una società nuova, diversa, migliore, in cui non ci fossero più dominati e dominanti, oppressi e oppressori.
Per farlo le classi dominate dovevano innanzitutto comprendere perché, appunto, erano dominate. Dovevano scendere nei «laboratori segreti» della produzione e riproduzione sociale e andare a caccia del mistero: scoprire cioè come una società di persone formalmente libere e uguali potesse produrre tanta disuguaglianza e illibertà.
Poi è giunta la sconfitta. Sconfitta epocale, storica, che ha sembrato mettere in discussione, non soltanto la possibilità, ma persino la necessità di una lotta per un mondo senza oppressi e oppressori, per una società senza classi. Qualcuno ha abbandonato, qualcun altro ha abdicato, qualcun altro ha tradito…
Noi siamo arretrati e la barbarie è avanzata. Non servono lunghi e complicati esempi, basta solo pensare alla crisi ecologica e alle sue conseguenze.
Di fronte alla barbarie che ci sommerge è tempo, e non da oggi, di rilanciare quel grandioso progetto che fu il comunismo.
Non certo quello “storico”, quello realizzato in URSS, in Cina, in Corea, in Vietnam ecc. Quello – se mai fu comunismo (ed è lecito dubitarne) – diventò quasi subito qualcosa d’altro, qualcosa di orribile.
No, oggi è tempo di lottare per una società che mai è sorta nella Storia. Una società che metta al centro la dignità di ogni essere umano e non umano, una società che possa scrivere sulle proprie bandiere «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!». È tempo di far nuovamente vivere quell’afflato, quel «desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita». È tempo cioè di far rivivere il progetto comunista.

Ora, è facile capire che ogni progetto ha bisogno innanzitutto di chiarezza. Sui fini da darsi, sui mezzi da adottare, sui problemi da affrontare.
Bene quindi che si torni a fare a analisi e a dibattere (in realtà non si era mai smesso), che si problematizzino i concetti, si faccia opera di “scavo teorico”… Bene insomma che sorgano e si moltiplichino interventi di riflessione, come quello recentemente pubblicato su questo blog: Oppressi di tutto il mondo…
Ma…, come sempre c’è un “ma”. E in questo caso il “ma” è il modo in cui si scava, gli strumenti che si usano per problematizzare i concetti, il tipo di riflessioni che vengono proposte.

Abbiamo il dovere di essere sinceri: di fronte all’articolo Oppressi di tutto il mondo… non siamo riusciti a nascondere il nostro sconcerto per ciò che l’autrice afferma. Ci siamo sentiti in obbligo di prendere carta e penna e di rispondere. Perché, come appena detto, la chiarezza è la precondizione di ogni progetto politico.

Poiché le questioni affrontate nel corso del testo sono tante, la nostra risposta sarà necessariamente lunga e articolata. Ci scusiamo anticipatamente con il lettore. Purtroppo non è semplice rispondere in poche parole alla domanda delle domande: «Cos’è l’oppressione?».

Partiamo proprio da qui, da questa domanda. Domanda estremamente impegnativa, forse troppo per esaurire la risposta in poche pagine: troppi i temi da affrontare, i problemi da risolvere. Il risultato finale è che la risposta data dall’autrice non convince innanzitutto per l’estremo eclettismo ed eterogeneità degli approcci, che paiono affastellati nel corso del testo.
Di conseguenza, l’argomentazione risulta più debole proprio là dove sarebbe dovuta essere maggiormente forte: nell’esplicazione dei nessi causali e logico-argomentativi.
Si prendano ad esempio questi passaggi:

Come il leone si nutre della gazzella […] esistono i potenti e i diseredati, gli sfruttatori e gli sfruttati, i carnefici e le vittime, i forti e i deboli. I ricchi e i poveri in cui i primi basano la loro ricchezza sullo sfruttamento e oppressione dei secondi che sono la quasi totalità della popolazione mondiale. La modernità presunta della società capitalistica non ha rinunciato alle oppressioni arcaiche e ne ha create di nuove!

 

Se Marx individua nei rapporti capitalistici di produzione il nucleo dell’estraniazione del lavoratore da sé stesso, da un punto di vista esistenzialista possiamo definire alienato ogni individuo, indipendentemente dalla sua professione, che sotto la spinta del conformismo, delle pressioni sociali, delle motivazioni provenienti dall’esterno va incontro ad un processo di separazione da se stesso, dalla parte più profonda del Sé. Da questo punto di vista è chiaro che noi umani e gli altri animali abbiamo un livello di sopportazione elevato considerando la nostra capacità adattiva.

 

L’assuefazione al pensiero unico, come l’innalzamento delle soglie percettive per il principio di abituazione [sic], rende invisibili le contraddizioni insite nell’organizzazione capitalistica. Non è più illogica una questione quando sta in piena regola sotto gli occhi di tutti. Per cui è più facile che la percezione del rischio trasformi gli esseri umani in delatori e psicopoliziotti piuttosto che in esseri coscienti della portata macroscopica delle contraddizioni.

 

«La vita che il lavoratore ha dato all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea» è un concetto estendibile anche al compratore, per tutti i motivi che la storia fin qui ci ha insegnato più uno.

Più oltre entreremo nel merito di specifiche affermazioni contenute in queste righe che proprio non ci convincono. In questa sede ci limitiamo ad osservare un problema non da poco: i nessi causali o anche solo logici – più o meno esplicitati dall’uso di sintagmi ad hoc («Da questo punto di vista è chiaro che…», «Per cui…») – non sono assolutamente chiari.
Perché «l’innalzamento delle soglie percettive per il principio di abituazione» rende più facile che la percezione del rischio trasformi gli esseri umani in delatori?
Qual è il nesso che lega il livello di sopportazione degli esseri umani e degli altri animali con l’estraneazione di ogni individuo dalla «parte più profonda del Sé»? Ma poi: quali altri animali? Tutti gli animali? Ma se sono tutti gli animali perché tirare in ballo i rapporti capitalistici di produzione? O tra i già citati “leoni e le gazzelle” intercorrono rapporti capitalistici di produzione e non lo sapevamo?
Come la società capitalistica riesce a inglobare le oppressioni «arcaiche» e crearne di nuove? Il processo andrebbe spiegato e non solo affermato con tanto di punto esclamativo. Perché poi modernità «presunta»? Se si vuol criticare il nesso abbastanza facile tra “moderno” e “migliore”, bisognava dirlo, altrimenti l’attributo rimane ambiguo e fuori luogo.
Non parliamo poi del concetto di alienazione che sarebbe «estendibile» anche al compratore «per tutti i motivi che la storia fin qui ci ha insegnato», che è un artificio retorico per esimersi dal compito di spiegare perché è possibile e legittimo compiere tale operazione.

Potremmo andare avanti ma ragioni di tempo e spazio ce lo impediscono. Ciò che speriamo sia chiaro è il nocciolo del problema: il fatto cioè che si è voluto dire tanto senza scegliere un baricentro e una direzione dell’argomentazione. Quel che rimane a fine lettura è la sensazione di aver stretto della sabbia tra le dita: quando più pensavi di averla afferrata, tanto più questa ti era sfuggita.

Entriamo ora davvero nel testo e nelle affermazioni ivi contenute. Quali risposte vengono date alla domanda che sostanzia l’intero articolo? In altre parole, che cos’è l’oppressione?
Innanzitutto l’autrice ci dice che «l’oppressione è un termine usato per lo più in ambito psicologico e si cura con farmaci o colloqui clinici». Non è una definizione esauriente, ma abbiamo colto il punto. Oggi l’oppressione viene ridotta a problema individuale, psicologico. Un tempo invece l’oppressione: «indica[va] una condizione politica, spirituale e economica della popolazione». Cosa si intenda qui “spirituale” non è molto chiaro, ma non sottilizziamo e proseguiamo.

Da un punto di vista bioesistenziale, l’ob pressione, la pressione esercitata contro, secondo il significato etimologico del termine, può essere considerata una condizione psicofisica attraverso cui l’Io sente di essere schiacciato. Il corpo segnala attraverso il sentire (quel feeling che deriva dalla qualità e direzione delle tensioni muscolari) lo stato di schiacciamento che riproduce a livello corporeo di una situazione che può essere fisica o spirituale. E che il cervello codifica e che l’unità psicofisica dell’Io processa.

Questo passaggio non ci è chiaro. Innanzitutto: cos’è il «punto di vista bioesistenziale»? Il punto di vista dell’esistenza della vita? Dell’esistenza del corpo? Non è dato saperlo. Ma a parte questo, cosa significa che «il corpo segnala attraverso il sentire […] lo stato di schiacciamento che riproduce [qual è il soggetto di riproduce: immaginiamo il “corpo” ma non è chiaro] a livello corporeo [cioè: il corpo riproduce a livello corporeo il sentire – che è il modo in cui il corpo segnala qualcosa – lo stato di schiacciamento?] di [questa preposizione non c’entra] una situazione che può essere fisica [quindi corporea: il corpo segnala una situazione corporea attraverso un sentire che riproduce a livello corporeo?] o spirituale [quindi mentale?]. E che il cervello codifica [cervello che non è corpo evidentemente, ma vi si rapporta come un altro-da-sé] e che l’unità psicofisica dell’Io [che non è il cervello, ma neanche lo spirito…] processa [attività differente dalla codificazione del cervello e la cui differenza non viene spiegata, come d’altronde non viene spiegato cos’è “la situazione spirituale”, il “sentire”, ecc.]»?
(Tralasciamo la «qualità e direzione [?!] delle tensioni muscolari» che determinano il «feeling», ossia «il sentire […] lo stato di schiacciamento»).
In ogni caso, al netto della prosa poco trasparente, ci sembra che qui si stia compiendo un gravissimo errore teorico: la scissione tra mente e corpo e la loro successiva “unificazione psicofisica” nell’Io (che è mente? è corpo? è entrambi ma solo in un secondo momento?).
Ora, non è questo il luogo per una complessa trattazione del rapporto mente-corpo, en passant ne abbiamo parlato qui. Ci preme in questa sede solo ricordare le parole di Merleau-Ponty: il «sapere singolare che noi abbiamo del nostro corpo [è possibile] solo perché siamo un corpo», ossia soltanto una prospettiva che sappia cogliere la sostanziale unità (nella differenza) di mente e corpo può evitare di incagliarsi nelle secche di una metafisica “biologista” (che riduce l’attività di pensiero al funzionamento dei neuroni) o “spiritualista” (che postula l’esistenza dell’anima e simili), secche pericolosamente sfiorate dall’autrice proprio in queste righe.

Proseguiamo con la lettura. Poco oltre l’autrice scrive che a occuparsi dell’oppressione sono la psicologia e la psichiatria oppure la medicina, ma solo quando l’oppressione è accompagnata a qualche problema di carattere fisico («problematiche dell’apparato respiratorio o cardiaco»). Si potrebbe obiettare che spesso si ha a che fare con forme di somatizzazione, proprio perché in realtà c’è unità di mente e corpo, ma nel complesso l’affermazione non ci trova in disaccordo.
Inoltre rileva che psicologia e psichiatria indicano come cause «qualche evento della vita personale» (un po’ come tutto nella vita di una persona però), «nella sua sfera sociale […] logistica [il significato non è chiaro] e e per lo più della sfera intima sentimentale o sessuale».
Subito dopo però aggiunge: «Ma non è mai l’economista a registrare questi dati». Non riusciamo a comprendere il senso di quest’affermazione, come per altro di quella che immediatamente segue: «non è l’economista che si occupa delle malattie respiratorie».
Se il tema è l’ottusa specializzazione dei saperi contro cui si scontra chiunque si affacci nel mondo accademico, era forse meglio affermarlo senz’indugi. Siamo però in dubbio che sia questo il punto. Dopo essersi infatti domandata «perché mai poi l’economista dovrebbe occuparsi di oppressione o di malattia» la risposta che viene data infatti è a nostro avviso stupefacente:

Forse perché la condizione di oppressione è connaturata ai rapporti di forza tra le classi sociali nell’organizzazione economica della società. Forse perché la qualità dell’aria, del cibo, dei luoghi di lavoro, della sanità che sta alla base dei processi eziopatogenetici è strettamente connaturata al sistema economico!

Non riusciamo proprio a capire il nesso con quanto detto finora… Certo, non possiamo che concordare: la scarsa qualità di aria, cibo, luoghi di lavoro, ecc. sono tutti problemi estremamente rilevanti per l’umanità. Ma cosa c’entra con il fatto che l’economista non si occupa di malattie respiratorie?
Una risposta a questa domanda non viene data.
Anche perché da questo momento voltiamo pagina e iniziamo a occuparci dell’oppressione sociale. Il punto di partenza è quest’affermazione:

se l’oppressione dell’uomo sull’uomo, risale agli albori della storia, il tempo pare aver cristallizzato questo parametro come intrinsecamente connaturato con la vita in una sorta di ineluttabilità della realtà differenziata delle classi sociali piuttosto che considerarlo uno stato primitivo della coscienza.

Ci dispiace dirlo, ma non possiamo che essere in disaccordo. L’oppressione non è uno «stato primitivo della coscienza», ma l’esito di determinati rapporti sociali, che hanno avuto una loro evoluzione storica e che proprio per questo possono essere superati nella direzione di rapporti diversi e non improntati all’oppressione. Tra l’altro, l’affermazione che l’oppressione è «uno stato primitivo della coscienza» viene contraddetta dalla stessa autrice poche righe sotto.

Se Marx individua nei rapporti capitalistici di produzione il nucleo dell’estraniazione del lavoratore da sé [sic] stesso, da un punto di vista esistenzialista possiamo definire alienato ogni individuo, indipendentemente dalla sua professione, che sotto la spinta del conformismo, delle pressioni sociali [categoria trans-epocale: la pressione sociale c’è sempre in una società], delle motivazioni provenienti dall’esterno [idem come sopra] va incontro ad un processo di separazione da se stesso, dalla parte più profonda del Sé [che sarebbe…?].

Anche in questo caso non possiamo trattenerci dal rilevare alcuni problemi.
In primo luogo Marx non si è limitato a dire che il lavoratore è estraniato «da se stesso» Marx afferma è che il lavoro alienato:

  • aliena il lavoratore dall’attività lavorativa;
  • aliena il lavoratore dal prodotto del lavoro;
  • fa della vita del lavoratore, per il lavoratore stesso, un semplice mezzo;
  • aliena gli esseri umani tra loro.

In secondo luogo, dire che da un punto di vista esistenzialista (sarebbe interessante capire se qua «esistenzialismo» è usato come termine tecnico-filosofico oppure con il significato di “inerente all’esistenza”) siamo tutti alienati, vuol dire depotenziare politicamente la critica all’alienazione, ridurla a un banale “avere contra essere”, che scimmiotta la critica moralistica al modo di produzione capitalistico invece di disvelarne la logica di produzione e riproduzione.
Che è poi quanto fa l’autrice, nemmeno troppe righe sotto.

Lavoratori e consumatori, entrambi privati di un senso di partecipazione sensata e universale all’organizzazione sociale, all’autodeterminazione dei popoli [non è chiaro cosa c’entri in questo contesto?], alla razionalizzazione [sarebbe la gestione razionale] delle risorse, ad un’economia della cooperazione ugualitaria [ossia il socialismo?], ad una gestione pubblica lungimirante degli approvigionamenti di cibo, acqua, energia, sono ridotti a poco più che automi.

Questo passaggio apre una serie di questioni. In primo luogo la separazione tra lavoratori e consumatori è scientificamente insostenibile. Si limita a prendere acriticamente il fenomeno e a riprodurlo nel pensiero. È lo stesso problema in cui si incaglia la scienza economica borghese, che vede non a caso produzione e consumo come due momenti separati e scissi (mentre in realtà devono venir colti nella loro unità e reciprocità).
In secondo luogo, anche qualora si volesse fare della fenomenologia, costruire su questa base una riflessione sull’alienazione si rivela per quello che è: un errore metodologico. In altre parole, dire che «lavoratori e consumatori, entrambi privati di un senso di partecipazione sensata e universale all’organizzazione sociale» significa non rendersi conto che, facciamo un nome e cognome, Jeff Bezos, l’uomo più ricco della Terra, è un consumatore. E lui non è che “partecipa o meno all’organizzazione sociale”, lui decide direttamente delle sorti di migliaia di persone che sono sue sottoposte in un rapporto di subordinazione materiale fondato su determinati rapporti di produzione codificati come rapporti giuridici, politici, culturali, ecc. (Indirettamente, poi, con le scelte di politica economica della sua azienda, decide della vita di milioni di persone, se non di miliardi…). Cosa c’entra il «senso di partecipazione sensata [a parte la ripetizione “senso”-“sensata”, perché sensata?, cos’è sensato?, per un capitalista è sensatissimo accrescere il capitale, non esiste un “senso in sé e per sé”…] e universale»?
Confondendo i due piani, limitandosi ad accogliere il punto di vista dominante sulla società senza sottoporlo a critica, l’autrice non riesce a sciogliere il nodo del problema: cos’è l’alienazione? Qual è il rapporto tra l’alienazione come fenomeno individuale e l’alienazione come fenomeno sociale?
Qualora l’avesse fatto, avrebbe dovuto indagare infatti i rapporti di subordinazione salariale. Rapporti che storicamente sono sorti con la separazione violenta dei lavoratori dai mezzi del loro lavoro (si pensi alle leggi sul vagabondaggio nell’Inghilterra elisabettiana). Tale scissione ha prodotto due effetti. Da un lato una massa di diseredati disposti a vendere l’anima al diavolo pur di non morire di fame. Dall’altro una concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani. La coercizione statale ha poi “fatto il resto”. Obbligando a vendere il lavoro, regolamentando i rapporti lavorativi in favore dei primi capitalisti, è potuta sorgere e svilupparsi prima la manifattura e successivamente l’industria.
La sussunzione della produzione al capitale, ossia la subordinazione della produzione alla logica di valorizzazione capitalistica, si è quindi manifestata innanzitutto come sussunzione formale, inerente cioè alla mera forma dei rapporti lavorativi. Successivamente, con la riduzione a “merce” di ogni aspetto del vivente e del non vivente, il capitale ha avuto la capacità di sussumere l’intera realtà alle sue esigenze (sussunzione reale).
Separati dai mezzi di lavoro, espropriati delle possibilità decisionali in sede lavorativa, alienati dal prodotto del loro lavoro, costretti a vendere la propria-forza lavoro ai capitalisti, i lavoratori vivono una vita invertita. Ciò che li rende davvero esseri umani, cioè la capacità di trasformare il mondo secondo un fine (il lavoro), è la loro schiavitù. Essi bramano il tempo libero, l’ozio, che riempiono con il consumo di quelle merci che loro stessi hanno prodotto. Consumo per riprodurre la propria esistenza biologica (mangiare, bere, riprodursi) oppure per soddisfare “bisogni indotti”, cioè creati non per soddisfare esigenze sociali e individuali ma per valorizzare un investimento, per fare profitto.
Si dovrebbe qui aprire un capitolo sul concetto di bisogno, di bisogno “necessario” e “indotto”, sui meccanismi che permettono lo sviluppo dei bisogni indotti, in primis la pubblicità, sul ruolo che la pubblicità ha oggi nella produzione (non più solo faux frais de production, ma condizione di possibilità della stessa produzione), sul nesso che lega pubblicità a ideologia a egemonia, ecc. Tanti temi. Troppi per questo scritto. Speriamo di poterci tornare in futuro.
Tutto ciò comunque non viene accennato dall’autrice, la quale invece preferisce imbarcarsi in quella che a noi pare una lotta contro i mulini a vento, contro l’apparenza fenomenica di tutto ciò, contro il consumismo. Scrive infatti:

La vita dell’operaio appartiene all’oggetto prodotto, ma anche la vita del compratore appartiene all’oggetto del mercato che pare restituirgli senso. Compro dunque sono. In questo riverbero di costruzione di senso la sottrazione di un Sé originario non sembra un problema, perché non lo si percepisce come tale.

Provando a ricostruire:

  • C’è un Sé originario dato una volta per tutte (ma non viene spiegato cos’è).
  • Il Sé originario viene sottratto da un «riverbero di costruzione di senso».
  • La costruzione di senso è esplicitata nel fatto che «compro dunque sono», che però è cosa diversa dall’alienazione del lavoratore, poiché nel caso dell’operaio, il problema è che la sua vita «appartiene all’oggetto prodotto» (non è chiaro in che senso).

In realtà quel che si voleva forse esprimere qui è quel che abbiamo detto prima: il modo di produzione capitalistico, poiché ha il suo Alfa e Omega nella valorizzazione del capitale e poiché questa valorizzazione avviene nella produzione di merci, sussume tutto alla forma-merce. La manifestazione fenomenica di questo processo è il feticismo delle merci.

Né l’oggetto che acquistiamo porta con sé i segni dello sfruttamento del lavoro, o lo stigma dell’inquinamento che ha contribuito a produrre e che produrrà (impressionante e sconosciuto l’impatto ambientale che ha la produzione di un paio di jeans!).

È buona regola circostanziare le critiche: qual è l’impatto ambientale? Ci viene detto che è impressionante e sconosciuto, ma non dicendoci a quanto equivale continuiamo a non conoscerlo…

«La vita che il lavoratore ha dato all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea» è un concetto estendibile anche al compratore, per tutti i motivi che la storia fin qui ci ha insegnato più uno. Lo sfruttamento della forza lavoro si somma ad un altro livello di sfruttamento. Quello smisurato, legittimato, pantagruelico delle risorse del pianeta che sono state privatizzate come fosse giusto e sfruttate come come fossero illimitate.

Anche in questo caso ci sono alcuni problemi in quello che l’autrice afferma. Il primo è che si possono trovare critiche allo sfruttamento delle risorse naturali già nell’Ottocento, ad esempio in Marx ed Engels, ma anche in autori come Podolinsky.
Inoltre questa forma specifica di sfruttamento va compresa nel più generale automovimento del capitale (come suo momento o determinazione), non sommata aritmeticamente ai presunti motivi dell’alienazione dell’“operaio” o del “compratore”.
Infine il fatto che l’alienazione di cui parla Marx è un concetto economico non psicologico. Il passo completo di Marx citato nell’articolo, suona infatti così:

Questo fatto [la svalutazione del mondo degli uomini] non esprime nient’altro che: l’oggetto che il lavoro produce, il suo prodotto, gli si contrappone come un essere estraneo, come una potenza indipendente dal produttore. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La relazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nella condizione economico-politica [sottolineatura nostra] come derealizzazione [Entwirkluchung] del lavoratore, l’oggettivazione appare come perdita dell’oggetto e asservimento all’oggetto, l’appropriazione come estraneazione, come alienazione.

In queste poche righe Marx spiega il rapporto sociale capitalistico, un rapporto economico-politico fatto di subordinazione tra esseri umani. Nulla che possa essere paragonato al «compro dunque sono», che invece si ferma ad una percezione fenomenica (e quindi moralistica) del problema.

L’aria, le sostanze del sottosuolo e del suolo, l’acqua, sono state sfruttate non dall’umanità ma da una piccola enclave di umanoidi che ha prevalso [si intendeva forse la classe dominante?], e che si autotutela con la forza. La metà più povera della popolazione sopravvive con l’1% delle risorse e la forbice di divergenza tra ricchi e poveri si allarga progressivamente; immutabilmente le condizioni socioeconomiche si tramandano di generazione in generazione, i ricchi sono figli dei ricchi e i poveri sono figli dei poveri.

Qua viene introdotto in modo assolutamente asistematico le differenze di classe nel discorso sullo sfruttamento della natura. Come si leghi sul piano logico-esplicativo a quanto detto prima però non è spiegato.

L’oppressione – da quella dell’operaio in fabbrica, a quella dell’aborigeno dell’amazzonia [sic], a quella dei migranti – è una condizione di malessere in cui vertono miliardi di persone nel mondo perché hanno perso la capacità di cooperare per una visione evolutiva collettiva.

Il cerchio si chiude. Se prima l’oppressione era uno «stato primitivo della coscienza», ora diventa una «condizione di malessere» dovuta alla «perdita [in che senso?] delle capacità di cooperare per una visione evolutiva [in che senso?] collettiva».
Sopra abbiamo detto che l’oppressione non è uno «stato primitivo della coscienza». Aggiungiamo ora che non è nemmeno una «condizione di malessere». L’oppressione è un rapporto sociale che ha una sua storia, meccanismi specifici di riproduzione, una “codificazione” politica, giuridica e financo culturale.

Ci piacerebbe proseguire in modo pedissequo lungo la restante parte dell’articolo, ma lo spazio non ce lo consente. Preferiamo quindi tagliar corto e concludere questa carrellata di citazioni con la proposta avanzata dall’autrice per risolvere questo grappolo di problemi.
L’argomentazione si fa qui delicata. L’autrice scrive che i problemi che oggi attanagliano la società sono celati, che «la trave non è visibile». Perché?

Ma sono anche tanti altri i motivi per cui la trave non è visibile. E che impedisce di gioire di fronte alla dimostrazione che si può vivere anche senza fare shopping. Ed è il lavoro. I profitti a discapito della salute pubblica e del senso di equilibrio planetario non sono visibili perché i signori del profitto danno lavoro a migliaia di persone e quindi fanno mangiare altrettante famiglie.

Ci dispiace dirlo in modo tanto tranchant, ma l’affermazione che i rapporti di subordinazione sociale (e quindi anche economica) capitalistici non sono visibili perché esiste il lavoro salariato, ossia la “forma salario”, che è l’essenza dei rapporti capitalistici di subordinazione, è una tautologia, non una spiegazione.
In ogni caso, come agire per risolvere il problema?

Allora c’è da capire che cosa possa significare transizione [si noti che è la prima occorrenza del termine]. Cosa possa significare unire le lotte e portarle ad un livello politico più avanzato di quello riformistico per sovvertire il modo di produzione capitalistico sostituendolo con quello ecosocialista femminista internazionalista. Come rendere possibili cambiamenti epocali come la conversione delle fabbriche, la chiusura degli allevamenti, la ridistribuzione delle risorse. E come poterlo fare nell’unico modo possibile cioè attraverso la Sovranità della classe lavoratrice.

Intanto una precisazione: un modo di produzione non può né essere femminista né internazionalista, al massimo lo può essere una società e comunque ci sarebbe da discutere sull’auspicabilità di una società femminista (crediamo che piuttosto la società futura dovrà conoscere una parità tra gli esseri umani, indipendentemente dal loro genere e sesso).
Ma in ogni caso, affermare che la condizione di possibilità della soluzione all’oppressione è la «Sovranità della classe lavoratrice» è cosa su cui siamo fortemente in disaccordo.
Dal nostro punto di vista, precondizione di una società senza classi è la conquista del potere da parte della classe lavoratrice. Conquista che deve coincidere con la costruzione di istanze autonome di organizzazione della società. Solo allora, noi (che non siamo «la società», come affermato nell’ultimo capoverso dell’articolo ma ne siamo la parte maggioritaria) potremo liberarci del giogo dell’oppressione. Questo però non c’entra con la Sovranità, che è concetto molto pericolo da adoperare e dalle implicazioni che nulla hanno a che vedere con la storia del movimento dei lavoratori.

Come detto si potrebbero aggiungere altri elementi di critica. Non ci sembra necessario, ci pare infatti di essere riusciti a dimostrare che il testo non coglie nel segno. Partito sotto i più alti auspici, come critica generale al problema dei problemi, al nodo dei nodi della nostra società e di quelle che ci hanno preceduto, cioè l’oppressione, si risolve in una serie di affermazioni discutibili, contraddittorie. Come già detto la sensazione finale è di aver stretto tra le mani della sabbia. Peccato, perché l’occasione era buona per mettere una serie di puntini sulle i.

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