di Marco Parodi
Venerdì 28 maggio 2021 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge recante la governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e le prime misure sulle cosiddette semplificazioni. Così, nell’applauso pressoché unanime e generalizzato, il tanto elogiato PNRR comincia a produrre i suoi effetti. Hoc erat in votis, il professor Draghi risponde ai più scettici: «in varie occasioni della mia vita mi hanno chiesto: “come pensi di farcela?”. Beh, insomma, abbastanza spesso ce l’ho fatta io, e stavolta ce la farà il Governo». Rileggendo la sua biografia, lo spavento è d’obbligo. Ovvero: come ho imparato a preoccuparmi e … ad odiare il Capitale.
Gli assi strategici del PNRR
Già, il capitale. Comprendere davvero il PNRR è persino meno complicato di quanto sembri a prima vista: tutto ruota intorno al capitale, in funzione del capitale. La ripresa e la resilienza del capitale sono il motivo e lo scopo stesso di tutto il Piano. I nuovi slogan tanto sbandierati per le future generazioni non sono altro che i vecchi incubi del peggiore capitalismo del secolo scorso, mentre il presunto statalismo di ritorno, come ancella del capitale, non è altro che una nuova forma della sfida decisiva per l’imperialismo europeo. Allo stesso tempo, ai nuovi incubi sanitari ed ecologici corrispondono le vecchie e fallaci promesse del regolazionismo multilaterale; ai nuovi campi di battaglia dell’innovazione tecnologica le vecchie tragedie commerciali e militari. Muta la forma, resta ferma la sostanza dello sfruttamento capitalista e dell’imperialismo transnazionale.
Quando venne presentata la primissima versione del PNRR dal Governo Conte, c’erano quattro linee strategiche e quattro sfide, cui corrispondevano sei missioni e sedici componenti funzionali. Le quattro linee strategiche erano la digitalizzazione e modernizzazione economica, la transizione ecologica, l’inclusione sociale e territoriale e la parità di genere. Ebbene sembravano proprio gli stessi assi, sebbene con prospettive diametralmente opposte, del programma strategico di Sinistra Anticapitalista: rivoluzionaria nel modo di produzione, eco–socialista e femminista. Da un lato, nel PNRR le linee strategiche sono subordinate alla logica del capitale e dell’imperialismo; dall’altro lato, in Sinistra Anticapitalista sono piuttosto orientate in senso anticapitalista e internazionalista. Ma gli assi erano pur sempre gli stessi, a riprova di quanto appropriata nella teoria e nella prassi, nonché adeguata allo scontro di classe, fosse stata la scelta strategica di Sinistra Anticapitalista, sin dalla sua costituzione, di orientarsi in senso rivoluzionario, ecosocialista e femminista.
Già nella seconda versione di gennaio, e poi in quella finale trasmessa dal Governo Draghi alla Commissione europea a fine aprile, gli assi strategici sono ridotti a tre, cui sono state aggiunte altrettante priorità trasversali. Le missioni e le componenti funzionali sono invece confermate. Quindi, i tre assi strategici sono: la digitalizzazione e l’innovazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale. Al tempo stesso, la parità di genere e l’inclusione territoriale sono parzialmente ridimensionate, costituendo comunque, assieme alle giovani generazioni, –donne, giovani e Sud-, le priorità trasversali di tutte le sei missioni. Per chi nutrisse dubbi sul vincolo del capitale, è emblematico come vengono più opportunamente riclassificati i tre assi strategici: capitale umano, capitale naturale e capitale sociale. Al contrario di quanto viene risaltato, si tratta di pura subordinazione: la conoscenza e l’innovazione tecnologica, l’ambiente e la società devono essere inquadrati esclusivamente nell’ottica della funzionalità alla ripresa e alla resilienza del capitale.
Così, infatti, ripresa e resilienza per il capitale identificano lo scopo essenzialmente duplice del PNRR. Si tratta di ripristinare le migliori condizioni per l’accumulazione di capitale e di migliorare la competitività delle imprese, sia in termini quantitativi, ovvero di sostenere la ripresa economica dopo la grande recessione e il grande lockdown, sia in termini qualitativi, ovvero di consentire la resilienza della produzione di fronte alle nuove sfide globali e minacce imperialiste. La transizione gemella, twin transition, digitale ed ecologica, rappresenta un’occasione di ripristino e impulso della profittabilità capitalista e un’opportunità storica imperdibile per il rilancio dell’imperialismo europeo. In questo senso, la svolta digitale ed ecologista del capitale, lungi dal rappresentare i contorni di una conversione ideologica nel nome della sostenibilità economica; si tratta, piuttosto, in senso duplice, sia dell’ennesima riproposizione della ricerca spasmodica del profitto per mezzo di un nuovo e forsennato tentativo di sviluppo incondizionato delle forze produttive, sia dell’ennesimo lacerante scontro tra le forze imperialiste, secondo i tratti esasperati di una competizione agguerrita come non mai dei capitali multiformi su scala planetaria.
Sfruttare lo shock pandemico come molla per un nuovo orizzonte di crescita è l’obiettivo esplicito della borghesia europea. In altri contesti, tra gli economisti si sarebbe parlato di considerare l’evento pandemico come uno shock esogeno negativo capace di scatenare una nuova onda lunga espansiva. Fin qui sono abbastanza chiari i propositi borghesi. Tuttavia, ancora una volta, la volontà borghese di un accrescimento illimitato della produzione si scontra con la contraddizione capitalista di una progressiva espropriazione e di un continuo impoverimento della grande massa della classe lavoratrice, nonché di un crescente e esponenziale disastro climatico e ambientale. Come al solito, il valore d’uso del lavoro e della natura si contrappone al dominio del valore. Il PNRR è da questo punto di vista il tentativo borghese, maldestro e idiota, di negare la realtà e la razionalità di questa contraddizione. Un recovery da ricovero!
Il PNRR di fronte alla crisi economica e allo shock pandemico
Quella che è stata definita come una stagnazione secolare è molto più propriamente una misura colma del livello raggiunto nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e il fine ristretto dei rapporti sociali che vi corrispondono; una vertiginosa caduta tendenziale delle aspettative di profittabilità dell’economia reale cui corrisponde dialetticamente una distribuzione sempre più antagonista tra le classi sociali, imposta dalla competizione capitalistica per la necessità di conservazione e autovalorizzazione del capitale stesso. Ben prima della pandemia il capitale non solo era entrato in profonda crisi, ma, soprattutto e ben più importante, faceva fatica a uscirne fuori. L’uscita dalla crisi è sempre caratterizzata da ristrutturazioni imponenti, sia nella forma della rottamazione e distruzione di capitale, per mezzo di fusioni e acquisizioni, sia nella forma di espulsione della forza lavoro, per mezzo di licenziamenti, precarietà e deflazione salariale. Tuttavia, la capacità di superare i suoi limiti avviene unicamente con dei mezzi che pongono il capitale di fronte agli stessi limiti ma su scala nuova e più elevata.
In questo scenario ha fatto irruzione la pandemia, come uno shock negativo combinato dal lato della domanda e dell’offerta. Dapprincipio, è prevalso lo shock negativo dal lato della domanda, con effetti persino deflattivi. Obbedendo al cinismo vergognoso della borghesia, nei fatti il lockdown della produzione non è mai stato come ci si sarebbe ragionevolmente attesi considerando il numero dei decessi. Successivamente, alla parziale ripresa della domanda si è contrapposto in modo marcato lo shock dal lato dell’offerta, con un rimbalzo economico inferiore alle attese e incapace di consentire un immediato recupero, ma soprattutto capace di far riemergere lo spettro dell’inflazione. Con tutto ciò che ne consegue in termini di ossessione paranoica ordoliberista.
Tale scenario è stato, tuttavia, favorito dalle politiche scellerate di chiara matrice borghese: i meccanismi di trasmissione della politica monetaria espansiva sull’economia reale si sono come al solito intrappolati tra gli intermediari finanziari e bancari, favorendo lo sviluppo di nuove bolle sui mercati azionari e obbligazionari, non essendo accompagnate da una politica fiscale adeguatamente espansiva, al contrario di quanto si tende a voler far credere; al tempo stesso, l’assenza totale di politiche fiscali redistributive ha permesso una tesaurizzazione senza precedenti e una polarizzazione sbalorditiva tra il boom dei dividendi per alcune imprese in determinati settori favoriti dalla pandemia e un’allarmante trasformazione delle crisi di illiquidità in crisi di solvibilità per moltissime imprese in altri settori.
Eppure tutto ciò poteva essere evitato. Il presidente Draghi ha sentenziato che “questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini ma di darli”. Difatti, alla lettera, i soldi sono stati dati nel modo più iniquo possibile e, stando alle nuove premesse, verranno persino selezionati in modo ancora peggiore. Si può calcolare che oltre un terzo degli oltre 100 miliardi di deficit sono stati sperperati per bonus, agevolazioni fiscali, crediti d’imposta, contributi scriteriati sul fatturato che non tenevano conto della capacità o meno di compressione dei costi, incentivi di vario genere e riduzioni di tasse sui profitti delle imprese, come nel caso scandaloso dell’Irap. Ben presto questi verranno restituiti nel modo consueto, ovvero scaricando sulla classe lavoratrice il costo del debito pubblico accumulato. Invece, sarebbe bastata una politica fiscale espansiva a sostegno degli investimenti nella sanità, nella scuola e nei trasporti, e a favore della classe lavoratrice e dei ceti popolari maggiormente colpiti, anche attraverso un sostegno monetario illimitato per tutto il periodo di emergenza, ovvero per mezzo della cancellazione del debito pubblico accumulato per fronteggiare l’emergenza sanitaria e economica; nonché una politica fiscale tipicamente redistributiva, per mezzo di una tassazione straordinaria e incisiva sui profitti delle imprese, sui rendimenti dei titoli obbligazionari e sul patrimonio immobiliare e mobiliare.
La tassazione dei redditi da capitale e dei profitti delle società avviene solo nel caso in cui si registrano profitti ovvero si percepiscono rendimenti, altrimenti la base imponibile è nulla. È proprio il contrario di quanto blatera quel solito imbecille di Draghi: questo era esattamente il momento per tassare in modo straordinario ed elevato chi continuava di fronte alla pandemia a accumulare rendimenti e profitti. Le aliquote andavano raddoppiate e triplicate in modo progressivo, proprio con il fine della coesione sociale. Persino dal lato dei sostegni e dei ristori, sarebbe stato piuttosto opportuno congelare tutti i costi fissi delle attività costrette a chiudere, con la dovuta garanzia di un reddito di quarantena adeguato. Anziché finanziare i renditieri, con i crediti d’imposta cedibili sulle locazioni, sarebbe stato doveroso auspicare e appoggiare il rent strike, dovuto all’impossibilità di qualsiasi pagamento dei costi fissi, comprese le bollette, le rate e così via. Bisognava congelare tutto alla situazione pre-pandemica; non favorire il piano inclinato dalle situazioni di illiquidità in vere e proprie insolvibilità, per tutte quelle attività economiche che purtroppo Draghi ha già bollato come zombie. In questo modo si sarebbero incentivate, non sanzionate, le chiusure delle attività, a beneficio di tutta la collettività. Zero costi per la classe lavoratrice e i ceti popolari e piena coesione economica e sociale. Per dirla con Brecht, la semplicità che è difficile a farsi.
Ripresa e resilienza per il capitale: investimenti e riforme
Di fronte a questa drammatica realtà, prima la grande recessione poi il grande lockdown, si dovrebbe valutare la risposta del programma europeo del Next Generation EU (NGEU), col duplice scopo di innescare la nuova crescita della profittabilità delle imprese e rilanciare l’imperialismo europeo. Purtroppo, l’Unione europea è sempre un terribile teatro di contraddizioni tra gli imperialismi dei singoli stati membri, contrapposti al loro interno tra paesi membri creditori e paesi membri debitori. Il risultato è che, a stento, è stato partorito un topolino. La quantità di risorse messe in campo dal NGEU ammonta a 750 miliardi di euro e si compone di vari stanziamenti su diversi programmi in funzione delle differenti finalità da perseguire. In termini di paragone, l’agenda Biden di “Ricostruire Meglio”, Build Back Better, ammonta nelle sue tre componenti a circa 6 mila miliardi. Stavolta, il fragile imperialismo europeo rischia di bruciarsi in modo definitivo, a vantaggio degli imperialismi dei singoli stati membri dominanti.
L’iniziativa di gran lunga di maggior rilievo è la costituzione del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, Recovery and resilience facility, (RRF), con una dotazione di 672,5 miliardi, di cui 312,5 miliardi sotto forma di sovvenzioni e 360 miliardi di prestiti. La componente di prestiti verrà erogata interamente attraverso questo strumento. Le dotazioni degli altri strumenti sono invece costituite interamente da sovvenzioni. Il più rilevante dal punto di vista quantitativo è il pacchetto di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (ReactEU) con stanziamenti complessivi pari a 47,5 miliardi. Segue il Just Transition Fund (JTF) con 10 miliardi esclusivamente destinati alla transizione ecologica; il Rural Development di 7,5 miliardi per l’agricoltura; 5,6 miliardi per irrobustire InvestEU, il vecchio programma Juncker sugli investimenti; 5 miliardi di Horizon Europe per la ricerca e lo sviluppo; infine, 1,9 miliardi di euro per RescEU, il fondo per la sanità e la protezione civile.
Infatti, per finanziare il programma NGEU la Commissione prenderà a prestito 750 miliardi di euro sui mercati finanziari. Mentre le sovvenzioni assegnate agli stati membri dovranno essere rimborsate attraverso i futuri bilanci dell’Unione entro il 2058, grazie a un innalzamento temporaneo del massimale delle risorse proprie al 2 per cento del reddito nazionale lordo della UE, basato sull’istituzione di nuove forme di tassazione europea, nel caso dei prestiti contratti dalla UE e trasferiti agli stati membri, i rimborsi saranno a carico dei singoli paesi beneficiari (back to back). Da un lato, il piano si presenta quantitativamente debole per il rilancio su scala europea, mentre alcuni singoli stati membri meno indebitati preferiranno muoversi in modo autonomo, come nel caso della Germania e degli stati frugali, che inevitabilmente integreranno le scarsissime risorse loro destinate dal NGEU; dall’altro lato, si tratta per una consistente quota di prestiti da parte degli stati membri creditori agli stati membri indebitati e per altri versi di sovvenzioni rigidamente condizionate, per mezzo dell’intercessione della beata Commissione europea. Nella prassi europea, la differenza tra fund e facility è tutta qui: il secondo è sottoposto a rigorose condizioni. Per carità di patria, smettiamola quindi di continuare a chiamarlo Recovery fund.
Per quanto riguarda le risorse mobilitate dal PNRR italiano, il loro ammontare complessivo, da utilizzare tra il 2021 e il 2026, è pari a circa 236 miliardi, costituiti in larga parte dai finanziamenti provenienti dal programma NGEU. In particolare, la quota del RRF destinata all’Italia è stimata in 191,5 miliardi, di cui 68,9 miliardi di sovvenzioni e 122,6 miliardi di prestiti, mentre quella erogata dal programma ReactEU raggiunge i 13,5 miliardi. In totale, le risorse del programma NGEU sono quindi pari a 205 miliardi; i restanti 31 miliardi circa del PNRR sono invece risorse nazionali, stanziate su un fondo di durata decennale istituito appositamente per l’attivazione del Piano nazionale per gli investimenti complementari, previa un ulteriore scostamento di bilancio a debito. Occorre evidenziare che dei 122,6 miliardi di euro di prestiti UE, soltanto 53,5 miliardi sono destinati a investimenti nuovi e aggiuntivi, mentre 69,1 miliardi di euro (quasi il 30 per cento del totale del PNRR) sono sostitutivi, ovvero impiegati per finanziare impegni già presi. L’Italia ha praticamente deciso di utilizzare quasi un terzo dei fondi soltanto per risparmiare sulla differenza tra gli interessi sul debito europeo comune rispetto al costo delle emissioni nazionali. Resta che, nei fatti, l’impatto aggiuntivo va valutato soltanto per 166,9 miliardi di euro, che, al netto delle ulteriori risorse nazionali complementari, si riducono a 153,4 miliardi di euro, di cui le sovvenzioni vere e proprie sono soltanto 68,9 miliardi, il 45 per cento, in sei anni. Ben poco rispetto a quanto megafonato e sicuramente insufficiente per promettere un nuovo miracolo ecosostenibile.
Coerentemente con quanto stabilito dal Regolamento europeo del RRF del 12 febbraio scorso, il dispositivo si basa sull’implementazione duplice di Investimenti e Riforme, orientate a risolvere le carenze strutturali delle economie degli stati membri, sulla base di quanto evidenziato nelle Raccomandazioni che il Consiglio ha inviato a ciascuno stato nel 2019 e nel 2020, nell’ambito del Semestre europeo. Per quanto concerne l’Italia, vi sono due squilibri macroeconomici eccessivi: l’elevato debito pubblico e la bassa competitività. Le riforme strutturali previste dalle Raccomandazioni del Consiglio sono quindi indirizzate in tal senso. La novità prevista nel nuovo Regolamento è che queste riforme strutturali divengono la condizione necessaria per accedere alle sovvenzioni e ai prestiti del RRF. Il monitoraggio sarà svolto in modo scrupoloso. Oltre 500 schede progetto, 2500 pagine e fogli excel per identificare obiettivi e processi, target e milestone, di ciascun investimento e di ciascuna riforma. Stavolta non c’è davvero scampo: non solo le riforme dovranno essere attuate a tutti i costi e gli investimenti realizzati senza se e senza ma, ma occorrerà raggiungere gli indicatori quantitativi stabiliti, talvolta davvero grotteschi, secondo i processi qualitativi già predefiniti. Il vincolo esterno è oggi più interno che mai.
A questo fine, il Piano comprende tre diverse tipologie di riforme: i) le Riforme orizzontali o di contesto, come la riforma della giustizia e della pubblica amministrazione, d’interesse traversale a tutte le missioni del Piano, consistenti in innovazioni strutturali dell’ordinamento, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese; ii) le Riforme abilitanti, come la riforma della concorrenza e della semplificazione amministrativa, ovvero gli interventi funzionali a garantire l’attuazione del Piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati; iii) le Riforme settoriali, contenute all’interno delle singole missioni. Infine, vi sono le Riforme di accompagnamento alla realizzazione del Piano, come la riforma del sistema fiscale e degli ammortizzatori sociali. Oltre a ciò, esiste il non detto nel PNRR, come la riforma delle pensioni, che consiste nella mancata conferma di quota 100, come promesso alla Commissione europea, e la riforma del reddito di cittadinanza, soprattutto sul piano delle cosiddette politiche attive, alias vincoli maggiori alla precarietà e flessibilità del mercato del lavoro.
Il ruolo dello stato borghese nella concezione liberale corrisponde esattamente alla necessità di creare le condizioni migliori all’accumulazione di capitale, ovvero a quello che nel PNRR viene costantemente richiamato come il clima economico del Paese. Innanzitutto, è dunque necessaria la giusta e tempestiva tutela della proprietà privata capitalista e della concorrenza. Di qui, la necessità della riforma della giustizia e della legge annuale sulla concorrenza, con particolare riguardo alla concorrenza nei servizi pubblici locali, ancora poco privatizzati e liberalizzati. La velocità dei procedimenti della giustizia civile e tributaria è strettamente necessaria al capitale per imporre le sue leggi contro ogni forma di violazione della proprietà. Ciò che veramente preme al capitale è la tutela della proprietà privata capitalistica, che si porta dietro tutte le forme di sopruso legalizzato, dagli sfratti alle negazioni dei diritti di sciopero, dalla piena libertà di movimento dei capitali, a livello internazionale, sino agli sgomberi delle occupazioni sociali e autogestite. Per non parlare del diritto del lavoro, calpestato da leggi e riforme liberiste, ma ancora talvolta difeso nelle aule giudiziarie. Poche volte, ma evidentemente troppe per la classe padronale.
Soprattutto, occorre una garanzia su tutte le forme di abuso dal punto di vista ambientale, storico e culturale: sia ex-ante nella forma dei procedimenti amministrativi, delle valutazioni d’impatto, delle sovrintendenze e delle gare d’appalto; sia ex-post nella forma della impunità giuridica. Una necessità per il capitale è data dalla riduzione dei costi improduttivi, faux frais, della circolazione con particolare riguardo ai costi amministrativi e burocratici. Chiaramente, nei confronti della burocrazia e della giustizia l’impostazione del Piano è soltanto in una prospettiva borghese. Nel senso borghese, l’efficacia della pubblica amministrazione è subordinata all’efficienza, quindi alla spending review, ovvero la riduzione stringente della spesa pubblica. Al tempo stesso, il merito e lo stimolo all’efficienza sono totalmente orientati a incentivare la divisione tra le lavoratrici e i lavoratori pubblici; ai premi per le presunte eccellenze corrispondono le sanzioni per i presunti fannulloni. Il risultato è quello opposto della ricostituzione di una burocrazia della rendita, fatta passare per merito, e della frammentazione salariale.
Sul tema del fisco, infine, si gioca anche una partita decisiva. Nella tassazione dei redditi delle persone fisiche si contrappongono due modelli: il modello onnicomprensivo, nel quale tutti i redditi da lavoro e da capitale concorrono alla formazione della base imponibile dell’IRPEF; il modello duale, nel quale i redditi da lavoro vengono tassati in modo progressivo in IRPEF, mentre i redditi da capitale sono tassati in modo sostitutivo e flat, ovvero non concorrono alla formazione della base imponibile IRPEF. Nonostante l’IRPEF sia stata introdotta nel 1973 sulla base del principio dell’onnicomprensività, già dapprincipio molti redditi da capitale ne uscirono fuori, come i rendimenti delle obbligazioni.
Quella che si chiama tecnicamente erosione dei redditi da capitale dalla base imponibile IRPEF è proseguita in modo crescente negli ultimi decenni, tanto che oggi l’IRPEF per l’85% è una imposizione dei redditi da lavoro dipendente e da pensione e il sistema fiscale assomiglia di più a un modello duale imperfetto. La riforma sembra avviarsi a una definizione pura del modello duale, con una riduzione delle aliquote per gli scaglioni dei redditi medio-alti. Al tempo stesso, nubi si addensano anche sulla regressività della riforma dell’IVA. Ancora più paradossale è stata la discussione che si è aperta attorno alla proposta di Biden di una tassazione minima globale sulle società di capitali. L’obiettivo dovrebbe essere quello di frenare la concorrenza al ribasso, race to the bottom, delle aliquote, laddove il confine tra paradisi fiscali e competizione fiscale risultava sempre più labile. Ebbene, la prospettiva di chi ha gridato al trionfo del riformismo è stata quella di imporre una tassazione minima al 21%, poi già retrocessa al 15%, ossia leggermente più alta del 12,5% della famigerata Irlanda. I rivoluzionari della sinistra italiana hanno pianto di gioia per questo trionfo storico, ma gli effetti di questo compromesso al ribasso saranno totalmente marginali e consentiranno ancora alle imprese medio grandi e multinazionali di continuare a pagare meno tasse sia dei redditi da lavoro dipendente sia dei redditi delle micro imprese.
Un principio fondamentale del PNRR è quello per cui lo stato si deve anche preoccupare dei cosiddetti fallimenti del mercato. Non inteneriamoci, nella teoria borghese si intendono le disgrazie sfortunate del capitale: da un lato, attraverso il principio della temporanea socializzazione delle perdite e della successiva privatizzazione dei profitti per le imprese; dall’altro lato attraverso la riforma degli ammortizzatori sociali per le lavoratrici e i lavoratori espulsi dalle imprese. La logica è sempre quella del minimo necessario per la classe lavoratrice e del massimo possibile per la classe borghese. Anche dal punto di vista dell’esternalità ambientale, il principio basilare dell’UE, ovviamente ripetuto come un’ave maria nel PNRR, è quello del DNSH, do not significant harm, per cui alle imprese è lecito tutto, tranne nel caso in cui si arrechino danni significativi all’ambiente. Ancora una volta tutto si gioca sull’aggettivo significativo: il massimo concedibile alle imprese, la tutela minima possibile per l’ambiente. E questa per lorsignori sarebbe la lode alla rivoluzione verde!
Al contrario, soltanto la prospettiva dal lato del lavoro e dell’ambiente potrebbe sedimentare un autentico Piano ecocialista, femminista e rivoluzionario per la resilienza e la ripresa della classe lavoratrice. Il Manifesto programmatico di Sinistra Anticapitalista, per una società ecosocialista, femminista e libertaria, può rendere al meglio cosa s’intende per il PNRR della classe lavoratrice alternativo a quello del capitale. Il decalogo, cui rimandiamo e che ripubblichiamo in coda in formato sintetico, contiene tutte le riforme e gli investimenti necessari per una transizione ecosocialista, femminista e rivoluzionaria. Si scopre allora che: la transizione digitale e produttiva è impossibile senza la riduzione del tempo di lavoro; la transizione ecologica è impossibile senza la proprietà pubblica e la pianificazione democratica, orientata alla difesa dell’ambiente e basata su investimenti massivi per la riconversione ecosocialista; l’inclusione sociale è impossibile senza il netto recupero dei salari sulla produttività e una piena svolta sugli investimenti per il welfare, a partire dalla sanità pubblica e dall’istruzione pubblica; la parità di genere è impossibile senza la liberazione totale dalla cultura maschilista e patriarcale. Soprattutto, si scopre che la risposta alla pandemia non può che essere internazionalista, attraverso un programma sociale mondiale di produzione e distribuzione dei vaccini, la piena libertà dai brevetti capitalisti, la proprietà pubblica delle imprese farmaceutiche e la cooperazione e la condivisione della scienza.
E, ancora, che la società libertaria è fondata su una riforma della giustizia orientata all’abolizione del carcere e alle pene alternative finalizzate alla rieducazione della pena; che la vittoria del garantismo sul giustizialismo è veramente possibile soltanto quando si abolisce finalmente la giustizia di classe, ossia quando si riforma l’ordinamento della magistratura, mai veramente in discontinuità col passato regime fascista, in senso realmente democratico e si introduce il concreto patrocinio gratuito per i ceti meno abbienti. E che la riforma dell’amministrazione è impossibile senza una lotta micidiale alla burocrazia, attraverso stipendi commisurati alla quantità e qualità del lavoro svolto, esattamente come per tutta la classe lavoratrice, nonché per mezzo della rotazione e revocabilità degli incarichi, compresi gli eventuali premi di risultato. E che la democrazia è impossibile senza una permanente militanza antifascista.
La transizione gemella: digitale e ecologica
Le risorse del NGEU si dividono in sei missioni, che ricalcano abbastanza fedelmente i sei pilastri del Regolamento UE. Ciascuna missione si suddivide a sua volta in diverse componenti. La prima missione riguarda la “Digitalizzazione, l’innovazione, la competitività, la cultura” per circa 50 miliardi su 236 complessivi, il 21%; la seconda “Rivoluzione verde e la transizione ecologica” per circa 70 miliardi, quasi il 30%; la terza “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” per circa 31,5 miliardi, il 13,4%; la quarta “Istruzione e ricerca” per quasi 34 miliardi, il 14,4%; la quinta “Inclusione e coesione” per circa 30 miliardi, il 12,7%; la sesta “Salute” per 20 miliardi, l’8,6%. Approssimando rispetto alle evidenti trasversalità, la prima missione riguarda espressamente il primo asse strategico della transizione digitale (per la quale il Regolamento prevede un minimo del 20% dei fondi), la seconda e la terza missione il secondo asse strategico della transizione ecologica (per la quale si prevede un minimo del 30%), la quarta, la quinta e la sesta missione il terzo asse strategico dell’inclusione sociale. Concentriamo la nostra analisi sulla duplice e cruciale transizione gemella digitale ed ecologica.
La prima missione attiene alla transizione digitale ed è divisa in tre componenti: la componente relativa alla pubblica amministrazione digitale per circa 11 miliardi; la componente relativa alle imprese per quasi 31 miliardi; una componente specifica per il turismo e la cultura per circa 8 miliardi. Per fortuna, dalla pubblica amministrazione digitale è stato eliminato il finanziamento assurdo del c.d. cashback, che valeva circa 5 miliardi; in ogni caso, la parte del leone si concentra sugli incentivi al sistema delle imprese, le cui risorse sono quasi interamente destinate a finanziare gli impegni già presi nel programma di agevolazioni fiscali della c.d. “Transizione 4.0”, che ha sostituito la precedente “Industria 4.0” di calendiana memoria. Si tratta di crediti d’imposta per l’acquisto di beni strumentali nuovi e digitali. Il fallimento già sperimentato del denaro impiegato a esclusivo vantaggio della detassazione cospicua di profitti e redditi d’impresa, senza alcun ritorno effettivo in termini di addizionalità di investimenti, non ha evidentemente insegnato nulla. Sono solo soldi regalati alle imprese e buttati, tutto qui. Errare è umano perseverare è diabolico. Ma su questo punto si giocava pur sempre il sostegno decisivo di Confindustria.
Nel PNRR si intravede solo parzialmente come la transizione digitale rappresenti una contraddizione dirimente per il capitale. Da un lato occorre esplicitamente migliorare la competitività delle imprese e l’adattabilità ai cambiamenti dei mercati; dall’altro occorre recuperare i ritardi vistosi che l’economia europea ha accumulato in materia di intelligenza artificiale, banda ultra larga, 5G, nanotecnologie, ecc. Ricostruire e autonomizzare le catene del valore delle filiere industriali nelle tecnologie digitali è la sfida fondamentale per l’imperialismo europeo. Tuttavia, una vera transizione digitale dovrebbe presupporre un’autentica rivoluzione del modo di produzione e dell’organizzazione del lavoro.
L’innovazione tecnologica e l’aumento forsennato della produttività del lavoro contribuiscono a ridurre al minimo il tempo di lavoro per la produzione di beni e servizi addizionali, per aumentare al massimo quello del pluslavoro. Il risultato è l’incessante crescita relativa dell’esercito industriale di riserva e del precariato di massa; al tempo stesso, nonostante l’aumento del plusvalore relativo, si accorcia sempre di più la differenza tra il capitale anticipato e quello accumulato, cosicché il saggio di profitto tende a ridursi progressivamente. Mentre si riducono al minimo i costi variabili, gli investimenti nell’economia digitale sono continuamente spinti al rialzo dalla concorrenza capitalistica. La ricerca delle ridotte opportunità della profittabilità esaspera al massimo lo scontro imperialista.
Viceversa, non è possibile concepire l’economia digitale senza una duplice trasformazione del modo di produzione: innanzitutto, la riduzione del tempo di lavoro come programma fondamentale per la redistribuzione dei guadagni di produttività e per la conquista del tempo libero rispetto al pluslavoro; in secondo luogo, la necessità della proprietà pubblica e della pianificazione democratica al posto della proprietà privata capitalista, in grado di rendere finalmente coerente lo sviluppo delle forze produttive con nuovi e adeguati rapporti di proprietà finalmente liberi. Da un punto di vista quantitativo, si sviluppa, in potenza, l’economia dell’abbondanza contrapposta all’economia della scarsità; la riduzione dell’orario di lavoro e la crescita del tempo libero e disponibile impongono con forza la loro crescente contraddizione contro il dominio anacronistico della legge del valore e dell’esercito industriale di riserva. La crescita in valore lascia in potenza il posto alla crescita materiale e immateriale della creatività produttiva e della produzione creativa. Da un punto di vista qualitativo, l’economia digitale trasforma potenzialmente la qualità della produzione e del consumo: il possesso lascia il posto all’accesso; la proprietà alla condivisione; il copyright all’open source. Tuttavia, il modo di produzione capitalistico ostacola lo sviluppo qualitativo attraverso l’imposizione della legge del valore, proprio quando questa si presenta come base miserabile di fronte allo sviluppo delle forze produttive.
Tanto rivoluzionaria risulta l’economia digitale della cooperazione e della condivisione quanto altrettanto reazionario risulta il next DEgeneration EU, così intriso di ciarpame ideologico della borghesia, subordinato unicamente alla necessità della crescita dei profitti e della tutela della proprietà privata capitalista. Purtroppo, il risultato sarà, da un lato, un ulteriore antagonismo di classe, per cui all’accumulazione crescente di capitale si rifletterà inevitabilmente l’accumulazione crescente di miseria relativa; dall’altro lato la spietata guerra imperialista per accaparrarsi le opportunità di profitto nello scenario del mercato mondiale. Come prima più di prima.
La seconda missione riguarda direttamente la c.d. rivoluzione verde e la transizione ecologica. Si suddivide in quattro componenti: l’agricoltura sostenibile e l’economia circolare per 7 miliardi; la transizione energetica e la mobilità locale sostenibile per 25 miliardi; l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici per 22 miliardi; la tutela del territorio e della risorsa idrica per 15 miliardi. Per quanto riguarda la prima componente, si evidenzia la necessità dello sviluppo della filiera agroalimentare e la gestione dei rifiuti secondo il paradigma dell’economia circolare. Quanto ai rifiuti, nel Piano non si fa accenno ai termovalorizzatori. Tuttavia, il ministro Cingolani ha poi chiarito che “se le iniziative di economia circolare non dovessero funzionare, in alcuni casi specifici una riflessione si potrà fare”.
La seconda componente concerne l’aumento della quota di energia prodotta da fonti di energia rinnovabile (FER), la promozione della produzione, della distribuzione e degli usi finali dell’idrogeno, nonché lo sviluppo di un trasporto locale ecosostenibile, accelerando la diffusione di trasporto pubblico locale “verde”. Dunque, il primo obiettivo è quello dell’incremento della quota di energie rinnovabili. L’attuale target italiano per il 2030 è pari al 30 per cento dei consumi finali, rispetto al 20 per cento stimato preliminarmente per il 2020. Un ruolo rilevante è riservato all’idrogeno. Nel luglio 2020 la Strategia europea sull’idrogeno ha previsto una forte crescita dell’idrogeno verde nel mix energetico, per far fronte alle esigenze di progressiva decarbonizzazione di settori con assenza di soluzioni alternative.
La terza componente riguarda la proroga del superbonus al 110% per la riqualificazione energetica degli edifici. Rimane assurdo comprendere, salvo l’ennesimo aiuto alla redditività delle banche, la ragione ultima dell’utilizzo a tale scopo delle detrazioni fiscali cedibili, con l’effetto di rallentare inevitabilmente il programma e favorire oltremodo le frodi tributarie. Sarebbe stato molto più semplice ed efficace un piano di finanziamento pubblico per il miglioramento dell’efficienza energetica dei condomini a partire dalle periferie delle grandi metropoli, che invece saranno le principali escluse dallo schema basato sulle detrazioni fiscali. Infine, la quarta componente è strettamente legata alla riforma della concorrenza per il servizio idrico integrato. Nel PNRR è previsto, infatti, che la tutela del servizio idrico passerà per la messa a concorrenza della gestione, riducendo il ricorso all’in house e favorendo la privatizzazione. Si tratta di un capovolgimento radicale del risultato referendario per cui proprio in questi giorni si festeggia un decennio di disattese. Del resto, il nostro Draghi aveva imposto la liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali già con l’infame lettera che inviò al Governo italiano nell’agosto del 2011 per il tramite del Corriere della Sera. Il lupo perde il pelo ma non il vizio!
Con l’accordo di Parigi, i paesi di tutto il mondo si sono impegnati a limitare il riscaldamento globale a 2°C , facendo il possibile per limitarlo a 1,5° C, rispetto ai livelli preindustriali. Per raggiungere questo obiettivo, l’Unione europea attraverso lo European Green Deal (EGD) ha definito nuovi obiettivi energetici e climatici estremamente ambiziosi che richiederanno la riduzione dei gas climalteranti (Green House Gases, GHG) al 55 per cento nel 2030 e alla neutralità climatica nel 2050. La Comunicazione è in via di traduzione legislativa nel pacchetto Fit for 55, che è stato anticipato dalla Energy transition strategy. Nel periodo 1990-2019, le emissioni totali di gas serra in Italia si sono ridotte del 19%, passando da 519 Mt CO2eq a 418 Mt CO2eq. In pratica, per circa 30 anni la riduzione media annua è stata pari allo 0,6%; di colpo nel decennio 2020-2030 occorre raggiungere una riduzione media annua pari al sestuplo, cioè il 3,6%. Questo per avere chiaro l’ordine di grandezza dell’imponente cambiamento necessario.
Nel PNRR è scritto che la transizione ecologica deve costituire la base del nuovo modello di sviluppo più sostenibile per le generazioni future. Subito dopo, però, si precisa che essa “può costituire un importante fattore per accrescere la competitività del sistema produttivo, incentivare l’avvio di attività imprenditoriali ad alto valore aggiunto, favorire la creazione di occupazione stabile”. Dunque, dietro alla sbandierata sostenibilità ambientale si cela l’agguerrita smania di profitti da parte del capitale, che trova un terreno vergine nel settore della transizione ecologica. L’economia e la finanza si sono immediatamente convertite alla transizione ecologica con nuovi investimenti e nuovi strumenti finanziari, data la promessa di ingenti profitti.
Tuttavia, dati i costi di produzione molto alti nella fase della transizione, in modo banale i profitti dipenderanno dal prodotto, PQ, dei prezzi per le quantità. O si aumenteranno vertiginosamente i prezzi o si aumenteranno massivamente le quantità. Nel primo caso, i beni e sevizi ecologici diverranno merce di lusso e la sostenibilità ambientale deve presupporre una distribuzione ancora più antagonista tra le classi sociali; nel secondo caso, l’aumento della produzione risulterà incompatibile con l’utilizzo delle sole energie pulite, entrando in contraddizione con la sostenibilità ambientale stessa. Pertanto, la transizione ecologica su base capitalistiche, finalizzata al profitto, o è antisociale o è antiecologica, oppure è un ibrido, cioè entrambe le cose contemporaneamente. Insomma, il contrario dell’ecosocialismo.
Su un piano tecnico e meno banale, la raffinatezza borghese utilizzata prevede l’integrazione dei modelli mainstream di equilibrio economico generale, basati su un utilizzo improprio delle tavole input-output, con i modelli climatici basati sui dati aggiornati delle emissioni dei gas climalteranti per ciascun settore, tenendo conto delle funzioni di produzione e dell’input di energia impiegata. Rispetto a un sentiero dinamico di tipo BAU, business as usual, vengono simulate le variazioni di policy dovute o a variazioni nelle tasse ambientali, come la carbon tax, ovvero aumenti di prezzo delle quote di emissioni. I risultati mostrano che, in entrambi i casi, gli incrementi dovrebbero essere ingenti per garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti dall’EGD. Inoltre, tali modelli sono basati sulle consuete assunzioni ideologiche tipiche dell’economia volgare, ovvero sulla determinazione dei salari e dei profitti come giusta e armonica remunerazione della produttività dei fattori produttivi, nonché sulla disoccupazione volontaria e la concorrenza perfetta, col risultato di escludere completamente la necessità e endogeneità delle crisi cicliche da eccesso di sovrapproduzione. Pertanto, è ragionevole supporre che le cose vadano anche peggio. La finanza speculativa se ne è accorta prima dei modelli economici, anticipando le profezie sull’incremento dei prezzi delle quote di emissioni, che sono già schizzati alle stelle.
In definitiva, si pone un duplice conflitto: in primo luogo, il concreto perseguimento degli obiettivi climatici dovrebbe imporre costi ingenti alle imprese sino a diventare proibitivi, a meno di una impennata dei prezzi nella fase della transizione; in secondo luogo, la crescita della produzione in termini quantitativi risulterà incompatibile col solo impiego delle fonti di energia rinnovabile, a meno di un clamoroso ritorno di fiamma dell’energia nucleare. Per tale ragione, la soluzione borghese a portata di mano potrebbe essere quella di considerare l’obiettivo della neutralità climatica in termini di saldo tra emissioni positive e negative. In questo caso, sarebbe possibile investire ingenti risorse sulla c.d. cattura e stoccaggio del carbonio, Carbon Capture Storage, CCS. Persino nel caso dell’idrogeno, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: rispetto all’impatto negativo dell’idrogeno nero (che usa la corrente prodotta da una centrale elettrica a carbone o a petrolio) e dell’idrogeno grigio (estratto da metano o da altri idrocarburi), in attesa dell’era dell’idrogeno verde (che usa la corrente prodotta da una centrale alimentata da energie rinnovabili) per ora sin troppo costosa, si aprirebbe la strada dell’idrogeno blu (dove a differenza dell’idrogeno grigio, l’anidride carbonica che risulta dal processo non viene liberata nell’aria bensì viene catturata e immagazzinata) o, perché no, dell’idrogeno viola (che usa la corrente prodotta da una centrale nucleare).
Coerentemente, nel mentre si scriveva il PNRR, con tanto di esaltazione ideologica della rivoluzione verde, tutto in realtà si muoveva in direzione contraria: TAV, TAP, TRIV, impianto CCS di Eni in quel di Ravenna, programma per l’ex-ILVA ora Acciaierie d’Italia. Tutto all’insegna dell’incremento delle emissioni di CO2. Probabilmente, il caso dell’ex ILVA è quello più emblematico. Nel giorno stesso, il 10 dicembre 2020, in cui l’Europa annunciava la storica decisione di dimezzare le emissioni nocive nei prossimi dieci anni, si sottoscriveva l’accordo per l’entrata di Invitalia, spa partecipata al 100% dal MEF, in maggioranza entro il 2022 in AM InvestCo, la società che controlla l’ex-ILVA. Poteva essere l’occasione per lanciare il grande progetto di conversione all’idrogeno verde ponendo l’Italia all’avanguardia. Peccato che il programma, successivamente confermato nei tratti fondamentali nonostante la continua incertezza, confermata dalla recente sentenza, prevedeva che il forno elettrico, con un ciclo interamente verde, entrasse a regime nel 2025 e solo per 2,6 milioni di tonnellate di acciaio su 8, poco meno di un terzo; al tempo stesso, tornava protagonista l’altoforno 5, il più grande d’Europa a ciclo integrato a carbon coke.
Il costo dell’acciaio verde, ovviamente, non sarebbe competitivo per parecchio tempo; tuttavia, è proprio compito dello stato finanziare, anche in perdita, ciò che il privato non investirà mai, in quanto i ritorni sono troppo lontani nel tempo e i rischi elevati. Qualcosa del genere è stato ipotizzato da molti ingegneri; qualcosa di simile è stato previsto dal governo svedese, annunciando un piano da 40 miliardi in 20 anni per produrre solo acciaio verde nell’acciaieria pubblica. Ciò che è stato descritto per la siderurgia, vale per molti altri settori economici: dal settore del trasporto all’industria della carne; dalla gestione dei rifiuti al settore manifatturiero tradizionale. Senza un sensibile incremento dei prezzi e una riduzione consistente della produzione, in questi settori non sarà concretamente possibile raggiungere obiettivi compatibili con la neutralità climatica.
Non è possibile risolvere la contraddizione della transizione ecologica senza prevedere il passaggio da una produzione finalizzata alla quantità e al profitto a un’altra produzione orientata alla qualità e al bisogno sociale e ambientale. Non si tratta tanto di produrre e consumare di più o di meno, quanto piuttosto di produrre e consumare meglio; si tratta, altresì, di produrre più servizi e meno beni. In ogni caso, ancora una volta si dimostra pienamente che non saranno mai la proprietà privata capitalista e il mercato profit oriented a tutelare la transizione verde; piuttosto, soltanto la proprietà pubblica e la pianificazione democratica need oriented possono garantire la piena riconversione del modo di produzione in senso ecosocialista e anticapitalista.
La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di proprietà ha raggiunto un livello cruciale. Hic Rhodus hic salta! Per risolvere questa contraddizione occorre per forza cambiare il modo di produzione capitalista e sostituirlo con un modo di produzione ecosocialista. L’unica alternativa restano le barbarie!
UN PIANO ECOSOCIALISTA, FEMMINISTA E LIBERTARIO
Seguendo un approccio internazionalista, comunista e rivoluzionario, il nostro programma della transizione si propone di migliorare sensibilmente le condizioni di vita e di lavoro, contro la logica del profitto e dello sfruttamento. Per questo serve un Piano radicalmente antiliberista, ma con la prospettiva anticapitalista di costruire sin da subito una società diversa, di tipo ecosocialista, femminista e libertario.
1 Un’Europa della classe lavoratrice contro l’Unione Europea liberista dell’austerità
Costruzione di un’Europa della classe lavoratrice, ecosocialista e internazionalista, alternativa all’Unione europea dei Trattati; rompere con le politiche impopolari e liberiste dell’austerità, con il Trattato di Maastricht, con il Patto di stabilità e con il Fiscal compact; una politica monetaria e fiscale in funzione anticiclica e dell’equilibrio delle bilance dei pagamenti; il ripristino dei controlli sui movimenti di capitale e una nuova moneta europea finalmente al servizio della crescita dell’occupazione, dei salari e della spesa pubblica.
2. La proprietà pubblica delle banche e l’annullamento del debito pubblico
L’annullamento del debito pubblico con la salvaguardia del risparmio della classe lavoratrice e la ricapitalizzazione delle banche pubbliche, per mezzo del finanziamento della banca centrale; per il credito bene comune, senza più profitti e margini d’intermediazione; una Cassa depositi e prestiti, finalmente pubblica e sotto il controllo popolare.
3. La riduzione del tempo di lavoro e la questione salariale
La riduzione dell’orario di lavoro su scala europea a 30 ore settimanali; la riduzione dell’età pensionabile e il ripristino del sistema retributivo; il recupero dei salari sulla produttività e sull’inflazione; il Salario minimo intercategoriale per legge e un Salario sociale per i/le disoccupate/i e per le/i giovani; il ripristino e l’estensione dell’articolo 18 e del contratto unico a tempo indeterminato; una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro; la tutela del diritto di sciopero; la contrattazione collettiva europea contro ogni forma di concorrenza tra la classe lavoratrice.
4. Un piano di investimenti pubblici per la riconversione ecosocialista dell’economia
Un massiccio piano di investimenti pubblici per la messa in sicurezza idrogeologica e sismica del territorio; una nuova strategia energetica fondata sulle energie rinnovabili e sull’efficienza e la razionalizzazione energetica; una nuova politica dei “rifiuti zero”; la proprietà pubblica e la riconversione delle imprese inquinanti, a partire dall’ex ILVA; un piano nazionale per la bonifica dei siti inquinati; il finanziamento delle “Piccole Opere”, dalla riqualificazione delle periferie al trasporto pubblico locale; un nuovo modello produttivo finalizzato alla qualità dei beni e servizi; l’abolizione dell’allevamento intensivo di animali e la forte riduzione della produzione e del consumo di prodotti di origine animale; il sostegno alle iniziative per la liberazione animale.
5. Internazionalismo, antimperialismo, diritto all’autodeterminazione dei popoli e libertà dai brevetti capitalistici
Contro le guerre senza se e senza ma, per la fuoriuscita dalla NATO; contro tutti gli imperialismi, quello americano ed europeo, quello cinese e russo; per il diritto all’autodeterminazione dei popoli; per la solidarietà internazionalista con tutti i popoli sfruttati, a partire da quello palestinese. Per una risposta sociale mondiale alla pandemia, la piena libertà dai brevetti capitalistici; per un programma internazionale di produzione e distribuzione dei vaccini; la proprietà pubblica delle imprese farmaceutiche e la cooperazione e condivisione della scienza.
6. Libertà delle/dei migranti per una unità di classe internazionalista
L’accoglienza e la protezione umanitaria delle/dei migranti in tutte le forme; la sanatoria di tutte le situazioni di irregolarità; la libertà piena per tutte/i le/i migranti e la soluzione solidale dei corridoi umanitari; un programma d’integrazione dalla scuola al lavoro; l’abolizione del regolamento di Dublino III, per una Europa internazionalista e solidale; la rottura del vincolo stretto tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro; l’approvazione dello ius soli e ius culturae; una revisione estensiva della legge sulla cittadinanza; il diritto di voto alle amministrative per i residenti stabili.
7. L’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQIA+ contro il il patriarcato e il fondamentalismo religioso
La piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne; la promozione dei centri antiviolenza come spazi laici ed autonomi di donne; l’opposizione al modello di società fondato sulla famiglia patriarcale; l’aborto libero, sicuro e gratuito; la parità di diritti, di salari, di accesso al mondo del lavoro a prescindere dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale; la rottura del carattere monosessuato dello spazio pubblico e della politica; contro ogni forma di discriminazione delle persone LGBTQIA+, attraverso una legge contro l’omotransfobia e il riconoscimento di tutti i loro diritti.
8. Stato sociale, beni comuni, proprietà pubblica e controllo popolare
La proprietà pubblica dei beni comuni, dalla sanità all’istruzione, dai rifiuti al trasporto locale; nei servizi pubblici, a partire dall’acqua bene comune, la trasformazione di tutte le spa in aziende pubbliche; l’aumento della spesa sociale pubblica sul PIL, per la sanità, l’istruzione, l’assistenza, la previdenza, la cultura; la riduzione della spesa pubblica per le spese militari, la difesa e l’ordine pubblico; un piano straordinario di edilizia pubblica per il diritto all’abitare.
9. La rivoluzione del sistema fiscale
Un’imposta fortemente progressiva sul reddito e sul patrimonio; all’opposto della flat tax, l’aumento degli scaglioni delle aliquote IRPEF; l’inclusione di tutti i redditi da capitale nella base imponibile; la lotta all’evasione, all’elusione e all’erosione fiscale; una tassazione progressiva, consolidata e armonizzata a livello europeo sulle società di capitali; l’introduzione della imposta patrimoniale su tutte le attività mobiliari e reali.
10. Una democrazia sostanziale, libertaria, antiburocratica e antifascista
Per la conquista di una democrazia economica, sostanziale e radicale; lotta alla burocrazia; la piena affermazione della libertà e dei diritti civili; lo scioglimento delle organizzazioni fasciste e la lotta alle organizzazioni di tipo mafioso; la depenalizzazione di una serie di reati e la legalizzazione delle droghe leggere; per l’amnistia, l’indulto e il patrocinio gratuito; per una giustizia non di classe, basata sulla finalità rieducativa della pena, sulle pene alternative al carcere e sull’abolizione dell’ergastolo, della tortura e del 41-bis.