di Kent A. Klitgaard – Traduzione di Mario Sassi
La decrescita non pianificata può essere un disastro per chi vive in un sistema capitalistico, soprattutto per i poveri e le classi lavoratrici. La decrescita non pianificata, più spesso nota come recessione, depressione o crisi, si è manifestata storicamente con un aumento della disoccupazione e delle difficoltà finanziarie. Queste crisi cicliche sono una parte fondamentale del processo di accumulazione del capitale. Senza accumulazione di capitale non ci sarebbe capitalismo. Il capitalismo senza una crescita sufficiente è uno stato stagnante e pieno di crisi.
Dagli anni Quaranta del secolo scorso, i politici e gli economisti mainstream, e persino alcuni economisti socialisti, hanno sostenuto che la crescita economica, o la crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) reale, è il parametro più importante per giudicare il successo di una politica economica. Mentre nel XVIII secolo gli economisti politici classici, come Adam Smith, si concentravano sull’accumulo e sull’espansione, alla fine del XIX secolo l’economia era dominata da teorie che sostenevano che l’individualismo possessivo costituiva la “natura umana” e che il valore fosse determinato dalla ricerca del benessere soggettivo. Si tratta, in sostanza, di un approccio statico alla teoria economica, modellato sulla fisica. William Stanley Jevons, ideatore dell’approccio dell’utilità marginale, arrivò a definire l’economia come la meccanica dell’utilità e dell’interesse personale1. Anche le teorie di John Maynard Keynes utilizzavano equazioni statiche, piuttosto che dinamiche.
Il New Deal dell’amministrazione di Franklin Roosevelt non era particolarmente orientato alla crescita economica. Si trattava di recupero e ristrutturazione. Roosevelt riteneva che la causa della Depressione fosse la sovrapproduzione interna. La preoccupazione per la sovrapproduzione lo portò a creare due agenzie, la National Recovery Administration e la Agricultural Adjustment Administration. Entrambe erano i primi tentativi di decrescita pianificata, progettati per limitare la produzione industriale e agricola e per equiparare i redditi agricoli e industriali. Sfortunatamente, entrambe furono dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema e da allora gli Stati Uniti si sono schierati a favore della crescita anziché della decrescita programmata di fronte alle crisi successive.2
L’attenzione per la crescita economica si è manifestata solo dopo la Seconda guerra mondiale. Dopo la fine della guerra e l’approvazione dell’Atto sull’Occupazione del 1947, la crescita economica fu vista come il veicolo verso che la piena occupazione e la stabilità dei prezzi, come richiesto dall’Atto. È sempre nel dopoguerra che la preoccupazione per la crescita economica diventa un obiettivo teorico.
Sebbene Michał Kalecki abbia iniziato a pubblicare modelli dinamici all’inizio degli anni Trenta, il suo lavoro è stato pubblicato in polacco e non è stato disponibile in traduzione inglese fino agli anni Sessanta e Settanta. Le teorie della crescita economica nel mondo anglosassone non sono emerse fino alla fine della Depressione. Le teorie di stampo keynesiano, associate a Roy Harrod in Inghilterra e a Evsey Domar negli Stati Uniti, sottolineavano la volatilità economica derivante dalla dinamica del processo di accumulazione. Le teorie della crescita neoclassiche sono emerse solo negli anni Cinquanta e hanno promosso l’idea che la traiettoria di crescita di un’economia competitiva sia stabile e meglio spiegata dal cambiamento tecnologico.3 La convinzione che crescita economica e cambiamenti tecnologici ci salveranno dalla miseria e forniranno una migliore qualità della vita è ancora dominante.
Nonostante le promesse dell’economia mainstream, che presta poca attenzione ai limiti della natura, ci troviamo di fronte a una minaccia esistenziale: una crisi di abitabilità globale generata dal capitalismo. Gli studi scientifici, da quelli dedicati all’appropriazione da parte dell’uomo della produttività primaria netta, alle impronte ecologiche e ai confini planetari, dimostrano che abbiamo già superato molti dei limiti della natura nel fornire risorse e nell’assimilare rifiuti e che un’ulteriore crescita economica non farebbe che aggravare la situazione. Inoltre, abbiamo poco tempo per risolvere il problema.4
L’ultimo Rapporto di Valutazione del Gruppo Intergovernativo di esperti sul Cambiamento Climatico (IPCC) fornisce un quadro crudo della realtà che il mondo deve affrontare. Conclude inequivocabilmente che l’emissione di gas a effetto serra è la causa del riscaldamento in ogni regione del mondo. L’aumento della temperatura media globale dalla metà del XIX secolo al 2019 è stato dell’ordine di 0,8-1,3°C, con effetti negativi diffusi. Se vogliamo limitare l’aumento medio della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali a meno di 2°C, le emissioni devono diminuire del 73% entro il 2050. Kevin Anderson e Alice Bows affermano che un aumento di 2°C non è la soglia tra sicuro e pericoloso, ma tra pericoloso e molto pericoloso.5 Se vogliamo mantenere il riscaldamento al di sotto della soglia di 1,5°C concordata a Parigi, le emissioni di gas serra devono diminuire del 99% entro il 2050. I tagli alle emissioni devono essere “profondi, rapidi, sostenuti e immediati”. Mentre l’IPCC stima che l’aumento più probabile della temperatura alla fine del secolo sarà compreso tra 1,4° e 2,7° C, la possibilità di un catastrofico 4,4° C non è irrealistica se le emissioni continueranno in futuro come nel recente passato. Inoltre, gli impatti peggiori ricadranno sulle nazioni e sulle regioni del Sud Globale che hanno contribuito meno al problema.6
Minqi Li ha sostenuto nel 2020 che ci sono solo due strategie che possono consentire di ridurre le emissioni di carbonio al di sotto della soglia dei 2°C alla fine del secolo, e nessuna delle due è compatibile con una crescita economica continua. La prima strategia, da lui definita “inerziale”, prevede che ogni Paese abbia il diritto di emettere una quota di carbonio pari alla propria percentuale attuale. Questo avvantaggia i Paesi dell’OCSE, che hanno emissioni pro capite molto più elevate. La seconda strategia è quella dell’equità, che consente a un Paese di emettere una quota pari alla sua percentuale di popolazione mondiale, a vantaggio dei Paesi più poveri con emissioni pro capite inferiori. I Paesi ricchi del Nord globale ritengono inaccettabile l’equità, mentre le nazioni del Sud globale non accetteranno probabilmente l’approccio inerziale.
Le conseguenze di una mancata riduzione delle emissioni nella misura proposta dall’IPCC sarebbero disastrose. Un aumento di 2°C potrebbe causare la disintegrazione delle calotte antartiche, con un conseguente innalzamento del livello del mare fino a nove metri. Un aumento della temperatura di tre gradi potrebbe innalzare il livello del mare di venticinque metri, mettendo in pericolo la produzione alimentare mondiale. Questo, così come lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya, potrebbe causare miliardi di rifugiati climatici. Un aumento delle concentrazioni di anidride carbonica di 550 parti per milione, associato a un aumento della temperatura di 4°C, potrebbe innalzare il livello del mare di ben settantacinque metri, inondando la maggior parte delle aree costiere.7
Se i cambiamenti climatici catastrofici non bastano a limitare l’ulteriore crescita economica, bisogna anche considerare la fine dell’era dei combustibili fossili. Nel 1956 il geologo petrolifero M. King Hubbert predisse che la produzione nazionale di petrolio nei “48 stati più ,meridionali” degli Stati Uniti avrebbe raggiunto il picco tra il 1968 e il 1972, iniziando quindi un inevitabile declino.8 Hubbert scoprì che le scoperte di nuovi giacimenti di petrolio raggiungono il picco circa quarant’anni prima della produzione. Le scoperte petrolifere statunitensi hanno raggiunto il picco nell’anno della Depressione, il 1930, e la produzione quarant’anni dopo. Il picco del petrolio internazionale è un’impresa più difficile, poiché l’ammontare delle riserve petrolifere è spesso un segreto di Stato e il calcolo delle riserve è soggetto a manipolazioni politiche.9 Le compagnie petrolifere hanno trovato e prodotto prima il petrolio più economico e facile da ottenere. Il resto è più difficile da acquisire, si trova in acque profonde o in aree polari, oppure deve essere fratturato idraulicamente o estratto, come nel caso delle sabbie bituminose canadesi.10 Questa non è necessariamente la fine del petrolio, ma la fine del petrolio a basso costo. Fin dall’introduzione dell’era del carbone, l’energia fossile è stata la forza motrice dell’accumulazione del capitale. Nessun economista parlava di crescita auto-perpetuante nell’era in cui l’energia proveniva principalmente dal flusso solare. Solo l’energia fossile poteva fornire la forza materiale alla base dell’auto-espansione del valore e della crescita economica.11 Per trovare una soluzione, dobbiamo comprendere la natura materiale della produzione e le dinamiche della produzione e dell’accumulazione capitalistica.
Da un punto di vista materiale, la produzione comporta lavoro e il lavoro, in senso fisico, è soggetto alle leggi della termodinamica. Non possiamo né creare né distruggere energia o materia. Inoltre, l’energia disponibile per il lavoro si degrada durante il processo di lavoro, come si misura dal grado di disordine chiamato entropia. Una parte dell’energia o della materia viene sempre sprecata.
Le leggi della scienza limitano la produzione attraverso la disponibilità di risorse e la capacità dell’atmosfera e degli ecosistemi di dissipare i rifiuti. Nell’era dell’Antropocene, abbiamo superato o ci siamo avvicinati alle soglie dei nostri confini planetari. Poiché non esiste alcun cambiamento tecnologico in grado di annullare le leggi della termodinamica, l’unica soluzione possibile è quella di produrre e consumare meno e di intervenire con maggiore leggerezza sui sistemi biofisici del pianeta. Ma il capitalismo, con il suo bisogno crescente di accumulare, può fornire un modo per vivere bene entro i limiti della natura?
Valorizzazione e processo
Nel primo volume del Capitale, Karl Marx affermò che la produzione capitalistica era l’unione di un processo di lavoro e di un processo di valorizzazione. Sempre nel primo volume, affermò che il valore e il plusvalore venivano creati nel processo di produzione dal lavoro vivo che impiegava i mezzi di produzione per produrre merci. Il denaro ricavato dalla vendita delle merci viene poi ricapitalizzato e utilizzato per acquistare altra forza lavoro e mezzi di produzione. In altre parole, il capitale è un valore che si espande da solo, M – C – M’.12 Senza accumulazione di capitale, non c’è capitalismo. Pertanto, la possibilità di decrescita sotto il capitalismo è essenzialmente inesistente.13 La differenza tra M e M’ è il lavoro non pagato, o plusvalore. Per aumentare il plusvalore assoluto o relativo, i capitalisti devono prolungare la giornata lavorativa, renderla più intensa o aumentare la produttività del lavoro. Questo è stato realizzato prima con mezzi organizzativi e poi dotando i lavoratori di macchine a combustibile fossile. L’aumento della produttività nel capitalismo è associato all’aumento del plusvalore relativo. Marx ha dedicato tredici capitoli del primo volume del Capitale allo studio della trasformazione storica del processo lavorativo.14 La sostituzione dei combustibili fossili con i macchinari e di manodopera relativamente docile con manodopera qualificata e volitiva ha permesso un maggior grado di controllo capitalistico sul processo lavorativo e sulla produttività del lavoro. Il ciclo allargato del capitale, che mostra l’acquisto di forza lavoro e mezzi di produzione, appare come:
M – C (LP + MP) – P…P’ – C’ M’
M diventa M’, seguito da M”, e poi da M”‘, e così via, in perpetuo. Il capitale è stato costruito su sfruttamento, accumulazione e ideologia. I capitalisti dovevano sia sfruttare i lavoratori che convincerli di non essere sfruttati..15 Nel corso degli anni, il controllo capitalista dei media e dell’istruzione continua l’acculturazione ideologica dei lavoratori inculcando la convinzione che più denaro per acquistare più merci sia il migliore dei mondi possibili. Il lavoro significativo è un concetto privo di significato per la maggior parte dei lavoratori. L’economia tradizionale sostiene che il lavoro è una disutilità e viene svolto solo per fornire denaro per l’acquisto di beni. È una convinzione fortemente diffusa, non solo tra i benestanti, ma anche tra ampi segmenti della classe operaia.
Nel terzo volume del Capitale, spiegando la tendenza al ribasso del tasso di profitto e le periodiche crisi di sovrapproduzione, Marx affermava che: “La vera barriera alla produzione capitalistica è il capitale stesso”.16 In un’economia competitiva sui prezzi, i capitalisti sono costretti a investire in un numero sempre maggiore di mezzi di produzione per aumentare la produttività del lavoro e ridurre i prezzi. I capitalisti che non lo fanno vanno presto in bancarotta. Ma quando la composizione organica del capitale (capitale costante su capitale variabile o lavoro morto su lavoro vivo nella produzione) cresce più rapidamente del tasso del plusvalore/tasso di sfruttamento, il tasso di profitto inizia a diminuire. Il circuito del capitale si rompe e si verificano le crisi. Durante la depressione che ne deriva, il valore del capitale viene annullato e i lavoratori disperati sono disposti a lavorare di più per meno. Di conseguenza, la composizione organica diminuisce e il tasso di sfruttamento aumenta, creando le condizioni per il ritorno dei profitti. Nel processo, i grandi capitali assimilano quelli più piccoli, mostrando sia la concentrazione (meno imprese più grandi) che la centralizzazione (meno proprietari). Le crisi di sovrapproduzione producono non solo cicli decennali, ma anche una tendenza alla monopolizzazione. Marx comprese anche la natura materiale della produzione. “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per sviluppare i poteri materiali della produzione e per creare un mercato mondiale corrispondente, esso è allo stesso tempo la costante contraddizione tra questo compito storico e i rapporti sociali di produzione ad esso corrispondenti “17
Questa contraddizione è al centro della nostra attuale crisi di livello planetario, tra il capitalismo che deve perseguire l’accumulazione/crescita e il mondo materiale, che ne è minacciato.
I limiti alla crescita nel XX secolo e oltre
Nei primi decenni del XX secolo, la grande impresa era diventata la modalità dominante di organizzazione aziendale. Paul A. Baran e Paul M. Sweezy hanno descritto il cambiamento nelle relazioni di valore che si è verificato quando il comportamento corrispettivo[1] ha soppiantato la concorrenza sui prezzi come strategia fondamentale delle grandi imprese oligopolistiche. La concorrenza non è finita, ma ha assunto la forma di una competizione per ridurre i costi unitari ed espandere la quota di mercato. La differenza tra il reddito aggregato e i costi salariali del lavoro produttivo è divenuta nota come surplus economico, che tendeva a crescere, riflettendo un aumento del tasso di sfruttamento all’interno della produzione.18 Ciò è dovuto in gran parte al declino della concorrenza sui prezzi e all’enorme potere dei combustibili fossili, soprattutto quando il petrolio e il gas naturale hanno soppiantato il carbone e il motore elettrico ha sostituito il motore a vapore, aumentando l’efficienza della produzione.19
Se il surplus non venisse assorbito, la normale tendenza dell’economia monopolizzata sarebbe andare verso la stagnazione. In assenza dei benefici dell’imperialismo o di qualche innovazione epocale come la macchina a vapore, la ferrovia o l’automobile, non ci sarebbero sufficienti sbocchi di spesa. In The Great Financial Crisis, John Bellamy Foster e Fred Magdoff hanno calcolato il tasso di crescita per decennio dagli anni ’30 al 2007. La crescita del PIL negli anni ’40, guidati dalla guerra, è stata in media del 6% all’anno, e del 4,4% all’anno negli anni ’60, il decennio della Nuova Frontiera e della Grande Società. Dagli anni ’70 i tassi di crescita hanno continuato il loro declino secolare, con una media di solo il 2,6% nel periodo 2000-2007.20 Poi è arrivata la grande recessione. Utilizzando la stessa fonte di dati (Tabella 1.1.1 dei Conti nazionali del reddito e del prodotto) si scopre che l’intero decennio 2000-2009 ha prodotto un tasso di crescita di appena l’1,9% e il successivo decennio del 2010 ha visto tassi di crescita medi di appena l’1,7% all’anno. Dopo un rimbalzo al 5,9% annuo in seguito alla fine della pandemia da COVID-19, il tasso di crescita del PIL reale è sceso a un anemico 1,1% nel primo trimestre del 2023. Le dinamiche del capitalismo monopolistico mostrano effettivamente una forte tendenza interna alla stagnazione, se non alla decrescita.
I metodi normali di assorbimento del surplus sono il consumo, l’investimento e lo spreco. Questo rende difficile pianificare la decrescita nell’era del capitalismo monopolistico. Baran e Sweezy hanno scritto a lungo sullo sforzo di vendita necessario per creare una nazione di consumatori patenti, ai quali è stato insegnato che l’acquisto costante di nuove merci può compensare il lavoro alienato e degradato necessario per la maggior parte dei lavoratori in un processo di lavoro capitalista. Uno degli esempi di spreco da loro indicati era l’obsolescenza programmata di merci e prodotti di moda costruiti in modo scadente che richiedevano un flusso costante di nuovi acquisti. Anche la pubblicità ha giocato, e continua a giocare, un ruolo importante. Foster e Brett Clark delineano il ruolo problematico che i rifiuti continuano a avere nel consumo e nell’assorbimento delle eccedenze. Non solo l’obsolescenza programmata e lo sforzo di vendita sono criticati per il loro ruolo nella crisi ecologica, ma anche la produzione di beni di lusso, la spesa militare e la finanza speculativa. L’industria dell’imballaggio è oggetto di una particolare attenzione. Solo il 9% dei 6,5 miliardi di tonnellate di rifiuti plastici generati è stato riciclato. Ogni giorno vengono scartati trecento milioni di bicchieri da asporto.21 Gran parte dei rifiuti finisce nelle discariche o negli oceani, dove un’isola di rifiuti di plastica grande tre volte il Texas galleggia nella Grande Vortice del Pacifico tra le Hawaii e la costa della California. Quasi tutti gli uccelli marini mostrano tracce di plastica nei loro corpi.
Un altro segno di spreco è la rete di generazione e distribuzione dell’elettricità, obsoleta e con emissioni di carbonio. Stiamo cercando di far funzionare una cosiddetta economia dell’informazione del XX secolo sulla spina dorsale di un sistema di produzione alimentato da idrocarburi del XIX secolo. Sebbene nell’ultimo decennio siano stati fatti grandi passi avanti nell’uso di energie rinnovabili come la geotermia, il solare e l’eolico, esse rappresentano ancora solo il 20% circa della produzione di elettricità negli Stati Uniti. I combustibili fossili dominano ancora. Il carbone, con il 22%, è ancora più utilizzato delle energie rinnovabili per produrre elettricità. La produzione di elettricità da carbone ha raggiunto il suo picco solo nel 2008, con 1.040,58 trilioni di watt di potenza. Dopo essere diminuita da allora, la produzione di carbone è aumentata nuovamente tra il 2020 e il 2021. Il carbone è il più sporco dei combustibili fossili e i gas di scarico contribuiscono fortemente al cambiamento climatico.22
L’idea di spreco è estremamente contraddittoria. Fin dai tempi di Charles Babbage, le imprese capitalistiche hanno cercato di ridurre i costi diventando più efficienti e riducendo gli sprechi. Tuttavia, a livello di sistema macroeconomico, l’assenza di sprechi aggraverebbe il problema già esistente della stagnazione.
Otto anni dopo la pubblicazione di Il capitale monopolistico, venne dato alle stampe Lavoro e Monopolistico di Harry Braverman. Ampliando i capitoli sul processo lavorativo del primo volume del Capitale, Braverman analizzò gli effetti del management scientifico, utilizzato per separare l’ideazione dall’esecuzione al fine di ridurre le capacità degli artigiani qualificati e impedire un rapido flusso di materiali ed energia nel processo di produzione. Di conseguenza, le condizioni del lavoro si sono degradate e i lavoratori sono stati dequalificati. Ciò non si è verificato solo nel settore manifatturiero, ma ha incluso anche la separazione tra ideazione ed esecuzione in settori in espansione come il lavoro impiegatizio e le professioni.23 La sussunzione reale del lavoro al capitale domina ora pienamente il luogo di lavoro e il processo lavorativo, dove è più probabile trovare il metabolismo dell’uomo con la natura. Non solo il lavoro è ora più alienato dagli altri esseri umani, ma anche dalla natura stessa. Un minor contatto diretto con la natura si traduce in un minor interesse per essa.
Il ruolo svolto dai combustibili fossili nell’accumulazione del capitale, nella realizzazione del plusvalore e nel pericolo rappresentato dalla continua emissione di gas serra è stato sottolineato in modo pregnante da Andreas Malm. Egli ha definito l’economia fossile come “un’economia di crescita autosufficiente che si basa su un consumo crescente di combustibili fossili e che quindi genera una crescita sostenuta delle emissioni di anidride carbonica. Nel lessico della politica climatica, questo è il principale motore del riscaldamento globale”.24 Il capitale fossile ha permesso l'”espropriazione originaria” (o “la cosiddetta accumulazione primitiva”) alla base della Rivoluzione industriale. Le miniere di carbone esistevano già prima dei miglioramenti apportati da James Watt, che resero i motori a vapore commercialmente validi come sostituti dell’acqua come motore principale dei processi industriali, e la loro esistenza fu una precondizione per l’ascesa della Rivoluzione industriale. La tesi di laurea di Sweezy e il successivo libro del 1938, Monopoly and Competition in the English Coal Trade: 1550-1850, descrivono questo processo e il comportamento dei proprietari delle miniere di carbone nel limitare la produzione e dividere i mercati per eliminare la concorrenza sui prezzi.25 Altri circuiti descrivono l’espansione dei combustibili fossili e delle emissioni di carbonio sia nella produzione che nel consumo. Il circuito del capitale fossile completa il circuito del capitale di Marx, dove F sta per combustibili fossili:26
M – C – (LP + MP[F])…PCO2…C’ – M’ → M'(LP’ + MP'[F’])…PCO2…C” – M” →
I combustibili fossili alimentano i macchinari che aumentano la produttività dei lavoratori nel punto di produzione. Il consumo produttivo di forza lavoro e di materiali, risorse ed energia (MRE) è la principale fonte di emissioni di carbonio. Mentre gran parte dell’economia ecologica e della teoria della decrescita sottolineano la necessità di ridurre la produzione di MRE, lo storico dell’economia Alfred Chandler ci ricorda che la Rivoluzione industriale è stata costruita sull’aumento di tale produzione, che ha comportato un aumento del numero di macchine e di energia per lavoratore.27
Malm ha incluso anche i circuiti del consumo dei lavoratori e dei capitalisti. Il circuito dei lavoratori è quello della semplice produzione di merci, lo scambio di valori uguali con valori d’uso diversi, C – M – C. Tuttavia, poiché la produzione è un processo materiale, il circuito è aumentato dai combustibili fossili e dalle emissioni di anidride carbonica: C – M – C(F)CO2. Ciò rappresenta una grande sfida per il futuro, poiché il consumo dei lavoratori, così come la produzione capitalista, aumenta il livello di combustibili fossili consumati e le emissioni rilasciate nell’atmosfera.
Dopo più di un secolo di prodigiosi sforzi di vendita, i lavoratori si sono acculturati in quello che Juliet Schor ha definito il ciclo infinito del lavoro e della spesa, in gran parte nel tentativo di trovare nel consumo di beni la felicità che è stata rubata dai loro luoghi di lavoro e dalle loro comunità.28 È improbabile che molti lavoratori sacrifichino i loro camion e le opportunità di svago che utilizzano combustibili fossili per il bene di una scienza che potrebbero non abbracciare. I capitalisti e altri consumatori di lusso saranno ancora meno propensi ad abbandonare il loro presunto diritto di nascita al comfort e alla comodità. Il fatto che sia i combustibili fossili che le emissioni di carbonio siano profondamente radicati nello “stile di vita americano” rende la riduzione delle emissioni di carbonio una sfida formidabile.
La Letteratura sulla Decrescita
Il movimento della decrescita è solitamente associato alle pubblicazioni di Serge Latouche della metà degli anni 2000. Tuttavia, negli anni ’60 e ’70 sono apparsi anche numerosi scritti che mettevano in discussione gli effetti della crescita economica sugli ecosistemi del pianeta. Tra i primi esempi si può citare “Primavera Silenziosa” di Rachel Carson, che si confrontava con gli sforzi di vendita dell’industria dei pesticidi.29 Kenneth Boulding in “The Economics of the Coming Spaceship Earth” annunciava la fine della “cowboy economy”, con le sue frontiere illimitate di crescita, e l’avvento della “spaceship economy”, in cui le risorse dovevano essere gestite con attenzione e la crescita era limitata.30 Poi, all’inizio degli anni Settanta, con la stagnazione e la fine del petrolio a basso costo, cominciarono a comparire una miriade di articoli e libri che mettevano in discussione la crescita economica da prospettive scientifiche e politico-economiche. Il 1971 vide la pubblicazione di The Entropy Law and the Economic Process di Nicholas Georgescu-Roegen, che introdusse gli economisti ai limiti posti dalle leggi della termodinamica, e di The Closing Circle di Barry Commoner, il primo di molti libri che enunciavano il conflitto dialettico tra quel prodotto dell’accumulazione del capitale noto come tecnosfera ed ecosfera.31
Nello stesso anno furono pubblicati due importanti articoli che mettevano in discussione la natura della crescita economica, apparsi sulla Review of Radical Political Economics. “The Political Economy of Environmental Destruction” di John Hardesty, Norris Clement e Clinton Jencks sosteneva che quasi tutte le componenti della produzione nazionale possono essere inserite in categorie che distruggono l’ambiente nel consumo o nella produzione. Alcuni beni, in particolare gli imballaggi, sono distruttivi per l’ambiente quando vengono smaltiti, e anche molti investimenti sono dannosi per l’ambiente, soprattutto quelli che bruciano carbone per il riscaldamento e la lavorazione industriale. Il capitalismo è un sistema fondamentalmente irrazionale, guidato dal profitto e non dal bisogno, un concetto che hanno attribuito alla lettura di Monopoly Capital. Hanno concluso che i bassi livelli di utilizzo delle risorse, di inquinamento e di pianificazione necessari per rimanere entro i limiti della Terra sono incompatibili con il capitalismo. Hanno anche fatto riferimento all’idea di Baran di surplus pianificato, un concetto appropriato per una società socialista razionale.32 Ridurre la crescita in modo razionale significa ridurre il surplus economico che deve essere assorbito. In questo caso, la pianificazione è chiaramente più razionale delle crisi periodiche o del caos del collasso dell’ecosistema.
Nello stesso numero, Richard England e Barry Bluestone hanno pubblicato ” Ecology and Class Conflict “. Essi sostenevano che i lavoratori, come i minatori di carbone e i lavoratori immigrati, hanno scelte professionali più limitate e hanno maggiori probabilità di incorrere sul posto di lavoro in inquinamento nocivo per la salute. Tuttavia, il sostegno della classe operaia alla legislazione ambientale era scarso. L’incapacità di produrre una crescita materiale sufficiente è stata alla base della crisi economica che ha colpito il Paese all’inizio degli anni Settanta. Ma finché i consumi materiali continueranno ad aumentare, seguiranno livelli intollerabili di inquinamento. Inoltre, gli autori sostenevano che le riforme liberali avrebbero solo permesso ai capitalisti di razionalizzare l’attuale modo di produzione. In conclusione, l’arduo compito che ci attende è la completa trasformazione del modo di produzione.33
The Limits to Growth è stato pubblicato per la prima volta nel 1972 e successivamente aggiornato nel 1994 e nel 2004. Il team del MIT che l’ha scritto, guidato da Dennis Meadows, ha condotto una serie di simulazioni che includevano cinque variabili: produzione industriale, risorse non rinnovabili, popolazione umana, produzione di cibo e inquinamento. Le conclusioni sono state che mentre le risorse si sarebbero esaurite costantemente, le altre variabili sarebbero aumentate, avrebbero raggiunto un picco tra il 2000 e il 2100 e sarebbero poi diminuite in modo esponenziale. Il team ha eseguito diverse prove del modello con ipotesi diverse, ad esempio raddoppiando le risorse, ma i risultati sono stati essenzialmente gli stessi. Sebbene non abbiano mai preteso di fare previsioni, i loro risultati rimangono molto accurati.34
Nel 1973, Herman Daly, allievo di Georgescu-Roegen e a breve decano dell’economia ecologica, pubblicò una raccolta di saggi intitolata Towards a Steady-State Economy. L’antologia comprendeva non solo il suo saggio sull’economia dello stato stazionario, ma anche articoli sulla popolazione, la termodinamica, i limiti alla crescita e la capacità di carico, l’etica e la popolazione. Seguirono Steady State Economics nel 1977; For the Common Good, in collaborazione con John Cobb Jr. nel 1989; un’altra antologia con Kenneth Townsend intitolata Valuing the Earth nel 1993; Beyond Growth nel 1996; e un testo con Joshua Farley nel 2003.35
Attraverso i suoi libri e numerosi articoli, Daly ha dato un contributo inestimabile alla disciplina dell’economia ecologica. È stato all’avanguardia nell’idea di sviluppo sostenibile, enunciando regole per l’utilizzo di risorse rinnovabili e non rinnovabili e per la gestione dei rifiuti. Daly ci ha portato l’idea dell’economia incorporata, cioè che l’economia è un sottosistema aperto di un pianeta finito e non in crescita, che viene costantemente rifornito di energia a bassa entropia dal sole e deve dissipare gli scarti di calore ad alta entropia. L’incapacità di farlo, perché la sfera economica era troppo grande, ha portato al riscaldamento del pianeta. Da qui la necessità di un’economia che si sviluppi qualitativamente ma che rimanga allo stesso livello quantitativo di produzione, consumo e produzione di rifiuti. Parte di questo modello era la distinzione tra il mondo vuoto, con una popolazione umana limitata e una natura abbondante, e il mondo pieno, con una natura impoverita e una popolazione grande e in crescita. Daly è stato un feroce critico dell’economia neoclassica e un colto storico del pensiero economico, ispirandosi in gran parte a John Stuart Mill per una vita migliore in uno stato stazionario.
Uno dei suoi contributi più preziosi è stata la definizione di ciò che un’economia dovrebbe fare quando funziona bene. Un’economia ben funzionante dovrebbe allocare le risorse, distribuire i redditi e limitare la scala macroeconomica alla capacità del pianeta di fornire risorse e assimilare rifiuti. Daly riteneva che i mercati fossero strumenti efficaci per l’allocazione delle risorse, ma che la distribuzione e la scala dovessero essere pianificate!
Nel 1975 Georgescu-Roegen pubblicò “Energy and Economic Myths “. In quel testo sosteneva che le leggi della termodinamica precludono la conversione dell’energia in minerali. Esiste una quantità finita di minerali che sono sia insostituibili che esauribili. 36 Quando chiedo alle persone più impegnate nel cambiamento tecnologico come soluzione al superamento dei limiti planetari, se credono che ci siano minerali sufficienti per portare l’economia dei flussi solari al livello di quella dei combustibili fossili, di solito ammettono che non ci hanno mai pensato. Tuttavia, uno studio del 2021 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia mette in dubbio la possibilità di una facile transizione. La domanda di minerali in generale dovrebbe aumentare di trenta volte per soddisfare lo Scenario di Sviluppo Sostenibile, e la domanda di litio aumenterà di oltre quaranta volte. La qualità delle risorse sta diminuendo e la produzione di minerali di qualità inferiore rilascia più anidride carbonica nell’atmosfera. Inoltre, ogni turbina eolica richiede 220 chilogrammi del minerale di terre rare neodimio, che è in diminuzione e viene separato dalla matrice rocciosa per mezzo del carbone. Le turbine eoliche sono fissate a basi di cemento e l’alluminio è necessario per i rotori. L’impronta dei combustibili fossili è elevata nella nuova economia del flusso solare.37
Georgescu-Roegen ha fornito una seconda grande intuizione dopo il dibattito sui minerali. Il principio dell’entropia non consente di raffreddare un pianeta continuamente riscaldato. Pertanto, le emissioni termiche potrebbero rivelarsi un problema e un limite alla crescita ancora più intrattabile della carenza di minerali.
La Decrescita dagli anni ’70 ad oggi
Nel 2009 è apparso Farewell to Growth di Serge Latouche.38 A questo sono seguiti diversi libri e articoli scritti e curati da Giorgio Kallis e colleghi dell’Università Autonoma di Barcellona, un centro di studi sulla decrescita. Joan Martinez-Alier va ricordato per il suo impegno a favore della giustizia ambientale nel contesto della decrescita.39 Nel mondo anglosassone, la teoria della decrescita è stata sostenuta da Peter Victor in Canada e da Tim Jackson nel Regno Unito. Jackson comprende certamente i limiti biofisici di una crescita economica continua e fa un ottimo lavoro per far esplodere il mito del disaccoppiamento, mettendo in discussione la cosiddetta crescita verde keynesiana e vedendo la contraddizione tra un’economia in continua crescita e l’integrità dei sistemi biofisici della Terra. Tuttavia, in Prosperity without Growth, non accetta l’argomentazione secondo la quale il capitalismo senza accumulazione non può esistere. Di conseguenza, una serie di riforme liberali riguardanti il passaggio a un’economia basata sui servizi, l’investimento in beni ecologici e la riduzione dell’orario di lavoro potrebbero consentire una forma di capitalismo non in crescita. 40 Tuttavia, Jackson ha rivisitato la questione nella sua recente pubblicazione Post Growth. Qui modera la sua critica al socialismo e ammette che la spinta alla produttività che guida la crescita economica è incorporata nei meccanismi del capitalismo. Afferma inoltre che il socialismo dovrebbe essere migliore del capitalismo e spera che lo sarà nel XXI secolo. Tuttavia, egli riafferma la sua critica al socialismo sovietico degli anni Cinquanta per essersi concentrato sull’aumento della produttività e della crescita economica.41 Come afferma Foster in Capitalism in the Anthropocene, i critici, compreso Jackson, parlano raramente di Cuba, che è l’unica nazione al mondo a mostrare alti livelli di sviluppo economico e un’impronta ecologica sostenibile. 42
La letteratura sulla decrescita si basa sulle solide fondamenta dell’economia politica ambientale apparsa negli anni Settanta, e le critiche rimangono più o meno le stesse da autore ad autore. La crescita del valore monetario dipende dalla crescita materiale, che è soggetta alle leggi della termodinamica. Pertanto, la riduzione della produzione dell’economia materiale può essere espressa e misurata dalla riduzione del reddito aggregato, soprattutto del PIL, anche se molti economisti della decrescita esprimono dubbi sull’accuratezza di questa misura del benessere.
Al ritmo attuale, l’umanità raggiungerà il suo budget di carbonio entro il 2036, eliminando sostanzialmente la possibilità di non superare l’obiettivo dei 2°C che separa i cambiamenti pericolosi da quelli molto pericolosi.43
La crescita economica ha apportato una ricchezza senza precedenti a milioni di persone, ma ha anche messo sotto pressione i sistemi naturali e non può rappresentare una politica per il futuro, se vogliamo vivere entro i limiti della natura. Ma la crescita è anche ideologica, e si esprime nel fatto che la crescita è una convinzione inculcata e un paradigma della crescita è diverso dalla crescita reale. Quasi tutti i teorici della decrescita esprimono oggi l’idea che la decrescita non possa essere attuata facilmente e che il paradigma della decrescita debba comportare una trasformazione fondamentale e radicale della società.
Per conciliare gli investimenti su larga scala nelle energie rinnovabili e in altre cosiddette tecnologie verdi, dobbiamo affrontare la disoccupazione che deriva dall’aumento della produttività senza espansione dell’economia. La letteratura sulla decrescita richiede costantemente una combinazione di reddito di base garantito o di servizi di base universali e una riduzione dell’orario di lavoro.
Un Piano per il Futuro
Non possiamo affidarci alla tecnologia per salvarci, né credere che la transizione verso un’economia che viva entro i limiti della natura possa essere realizzata con una serie di piccole riforme. Le tecnologie si basano sui combustibili fossili e, se non ci sono abbastanza minerali nella crosta terrestre per creare alternative, il futuro potrebbe includere ore di lavoro fisico più lunghe. La letteratura sulla decrescita contiene poche informazioni sulla resistenza che la trasformazione incontrerà, non solo da parte dei lavoratori e dei consumatori, che vedranno ridurre le loro provvidenze, ma anche dal potere della classe capitalista di resistere a qualsiasi limitazione del proprio potere di accumulazione. Dovremmo aspettarci una tale reazione da parte degli stessi capitalisti, dal fuoco di sbarramento di pubblicità e media e da politici assoldati.
Non possiamo semplicemente aspettare che il socialismo crei le condizioni materiali adeguate per la sopravvivenza della decrescita. Il socialismo, a differenza del capitalismo, non ha una tendenza intrinseca all’accumulo, né ha bisogno di uno sforzo di vendita gargantuesco per assorbire le eccedenze. Dobbiamo agire ora. Dal momento che l’essenza del capitalismo risiede nel processo lavorativo, guidato dai combustibili fossili, dal consumo vistoso e dall’accumulo di capitale, possiamo iniziare da qui con riforme che accentuino le contraddizioni piuttosto che attenuarle.
Chiedere il ritorno a un lavoro dotato di senso. Un processo lavorativo che ci permetta di vivere entro i limiti della natura è un processo lavorativo che sostituisce un lavoro dotato di senso a un lavoro dequalificato e a un consumo vistoso. La riduzione dell’orario di lavoro e l’istituzione di un reddito garantito, come chiedono molti economisti della decrescita, non sono sufficienti per una società sostenibile. Il lavoro deve avere un senso, e il senso deve includere il rispetto dei limiti della natura, oltre a maggiori legami con la comunità e a un maggiore tempo libero in cui identificarsi con la natura.
Smettere di sovvenzionare l’estrazione e la produzione di combustibili fossili. Se le compagnie petrolifere si limitassero ad estrarre tutto il petrolio che hanno già trovato e non ne scoprissero altro, saremmo già destinati a un riscaldamento di 3°C, che renderebbe invivibili ampie zone del pianeta.
Lavorare in coalizione. Si può imparare qualcosa di importante interagendo con qualcuno che non la pensa esattamente come voi. Siamo arrivati ad un punto in cui non siamo abbastanza forti per apportare i cambiamenti necessari da soli, e il tempo è fondamentale.
Limitare l’accumulazione di capitale. Far pagare ai capitalisti finanziari l’arbitraggio internazionale. Allontanare gli investimenti da quelli che danneggiano il pianeta e destinarli a quelli che lo aiutano. Uscire assolutamente dal business dell’imperialismo e bloccare i produttori di armi e le banche che li finanziano. Aspettatevi che il capitale si opponga e non aspettatevi che la transizione sia facile. La decrescita pianificata può essere difficile, ma è certamente più razionale e meno caotica del collasso totale dell’ecosistema, che è l’inevitabile conseguenza di un’accumulazione di capitale e di una crescita economica senza limiti.
Note
- ↩ William Stanley Jevons, The Theory of Political Economy (New York: Augustus M. Kelley, 1957).
- ↩ David M. Kennedy, Freedom from Fear: The American People in Depression and War, 1929–1945 (New York: Oxford University Press, 1999).
- ↩ Michał Kalecki, Theory of Economic Dynamics (New York: Monthly Review Press, 1965); Michał Kalecki, Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy (Cambridge: Cambridge University Press, 1971); Roy Harrod, “An Essay in Dynamic Theory,” Economic Journal 49 (March 1939): 14–33; Evsey Domar, “Expansion and Employment,” American Economic Review 37, no. 1 (March 1947): 34–55; Robert Solow, “A Contribution to the Theory of Economic Growth,” Quarterly Journal of Economics 70, no. 1 (February 1956).
- ↩ Peter M. Vitousek, Paul R. Ehrlich, Anne H. Ehrlich, and Pamela A. Matson, “The Human Appropriation of the Products of Photosynthesis,” BioScience 36 no. 6 (June 1986): 368–73; Johan Rockstom et al., “A Safe Operating Space for Humanity,” Nature 461, no. 24 (2009): 472–75.
- ↩ Kevin Anderson and Alice Bows, “Beyond ‘Dangerous’ Climate Change: Emissions Scenarios For a New World,” Philosophical Transactions of the Royal Society A. 369 (2011): 20–44.
- ↩ Intergovernmental Panel on Climate Change, “Summary for Policymakers,” Climate Change 2023 Synthesis Report (Geneva: IPCC Switzerland, 2023), 22.
- ↩ Minqi Li, “Anthropocene Emissions Budget, and the Structural Crisis of the Capitalist World System,” Journal of World Systems Research 26, no. 2 (2020): 288–317.
- ↩ King Hubbert, “Nuclear Energy and the Fossil Fuels,” presentation at the spring meeting of the Southern District, Division of Production, American Petroleum Institute, Division of Production, San Antonio, March 7–9, 1956.
- ↩ Colin Campbell and Jean Lahererre, “The End of Cheap Oil,” Scientific American 278 (1998): 78–83.
- ↩ Charles A. S. Hall and Kent A. Klitgaard, Energy and the Wealth of Nations, 2nd ed. (Chelm, Switzerland: Springer Verlag 2018).
- ↩ Andreas Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming (London: Verso, 2016).
- ↩ Karl Marx, Capital, vol. 1 (London: Penguin, 1976).
- ↩ John Bellamy Foster, Capitalism in the Anthropocene (New York: Monthly Review Press, 2022), 363–372.
- ↩ Marx, Capital, vol. 1, chapters 7–18.
- ↩ Michael Burawoy, Manufacturing Consent (Chicago: University of Chicago Press, 1982).
- ↩ Karl Marx, Capital, vol. 3 (New York: Vintage Books, 1981), 358.
- ↩ Marx, Capital, vol. 3, 359.
- ↩ Paul A. Baran and Paul M. Sweezy, Monopoly Capital (New York: Monthly Review Press, 1966).
- ↩ Richard DuBoff, “The Introduction of Electrical Power in American Manufacturing,” Economic History Review 20, no. 3 (1967): 509–18.
- ↩ Fred Magdoff and John Bellamy Foster, The Great Financial Crisis (New York: Monthly Review Press, 2009).
- ↩ John Bellamy Foster and Brett Clark, The Robbery of Nature (New York: Monthly Review Press, 2020), 238–68.
- ↩ Energy Information Agency, November 2022 Monthly Energy Review (Washington, DC: Office of Energy Statistics, 2022), 131, table 7.2a, eia.org.
- ↩ Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital (New York: Monthly Review Press, 1974).
- ↩ Malm, Fossil Capital.
- ↩ Paul M. Sweezy, Monopoly and Competition in the English Coal Trade: 1550–1850 (Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 1938).
- ↩ Malm, Fossil Capital, 290.
- ↩ Alfred Chandler, The Visible Hand: The Managerial Revolution in American Business (Cambridge, Massachusetts: Belknap, 1977).
- ↩ Juliet Schor, The Overworked American (New York: Basic Books, 1993).
- ↩ Rachel Carson, Silent Spring (New York: Houghton Mifflin, 1962).
- ↩ Kenneth Boulding, “The Economics of the Coming Spaceship Earth” (Washington, DC: Resources for the Future, 1966).
- ↩ Nicholas Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process (Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 1971); Barry Commoner, The Closing Circle (New York: Bantam, 1971).
- ↩ John Hardesty, Norris C. Clement, and Clinton E. Jencks, “Political Economy and Environmental Destruction,” Review of Radical Political Economics 3 no. 4 (November 1971): 82–102.
- ↩ Richard England and Barry Bluestone, “Ecology and Class Conflict,” Review of Radical Political Economics 3, no. 4 (November 1971): 31–55.
- ↩ Donella Meadows, Jorgen Randers, and Dennis Meadows, Limits to Growth: The 30-Year Update (White River Junction, Vermont: Chelsea Green Publishing Company, 2004).
- ↩ Herman E. Daly, Towards a Steady-State Economy (New York: W. H. Freeman, 1973); Herman E. Daly, Steady-State Economics (Washington, DC: Island Press, 2008); Herman E. Daly and John Cobb Jr., For the Common Good (Boston: Beacon, 1989); Herman E. Daly and Kenneth N. Townsend, Valuing the Earth (Cambridge, Massachusetts: MIT Press, 1993); Herman E. Daly, Beyond Growth (Boston: Beacon, 2003).
- ↩ Nicholas Georgescu-Roegen, “Energy and Economic Myths,” Southern Economic Journal 4, no. 5 (January 1975): 347–81.
- ↩ International Energy Agency, The Role of Critical Minerals in Clean Energy Transitions (Paris: IEA, 2021).
- ↩ Serge Latouche, Farewell to Growth (Malden, Massachusetts: Polity, 2009).
- ↩ Joan Martinez-Alier, “Environmental Justice and Economic Degrowth: An Alliance Between Two Movements,” Capitalism Nature Socialism 23, no. 1 (March 2012): 51–72.
- ↩ Tim Jackson, Prosperity Without Growth: Economics for a Finite Planet (London: Earthscan 2009); Giorgios Kallis, Degrowth (Newcastle Upon Tyne: Agenda Publishing, 2018); Giorgios Kallis, Susan Paulson, Giancomo D’Alsia, and Frederico Demaria, The Case for Degrowth (Medford, Massachusetts: Polity Press, 2020); Peter Victor, Managing Without Growth (Cheltenham: Edward Elgar, 2008).
- ↩ Tim Jackson, Post Growth: Life After Capitalism (Cambridge: Polity, 2021).
- ↩ John Bellamy Foster, Capitalism and the Anthropocene, 363–72.
- ↩ Nick Evershed, “Climate Countdown Clock,” Guardian, accessed May 28, 2023; Fred Pearce, “The Trillion-Ton Cap: Allocating the World’s Carbon Emissions,” YaleEnvironment360, October 24, 2013.
[1] Nota del Traduttore. Il comportamento corrispettivo è il comportamento di un’azienda che evita la concorrenza a oltranza a favore di un atteggiamento di “vivi e lascia vivere” nei confronti dei concorrenti. Schumpeter ha definito la concorrenza corrispettiva e il correlato esercizio del potere di mercato come comportamento corrispettivo. Il comportamento corrispettivo consente alle imprese dominanti di coordinare gli investimenti. Il comportamento corrispettivo è una strategia per ridurre il rischio aziendale ed è in diretto conflitto con i valori dell’ideologia liberale che enfatizzano la concorrenza.
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