Proletari dell’ecosistema, unitevi!
Se la lotta contro il cambiamento climatico passa per la lotta di classe
Di Danilo Gullotto
A soli pochi mesi dalla 28ma conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28), i toni trionfalistici ed autocelebrativi con cui si è concluso il sopracitato evento hanno finito inesorabilmente per infrangersi sugli scogli della realtà, mortificando la speranza di attuare una concreta transizione verde in tempi ragionevolmente brevi. Infatti, basterebbe la doccia fredda che arriva dalle dichiarazioni fatte recentemente dalla grande banca statunitense Jp Morgan per comprendere come non vi sarebbe alcuna volontà di abbandonare il mercato dei combustibili fossili da parte dei governi e delle multinazionali, anche in ragione dei costi delle materie prime che risentono dell’attuale clima di guerra, dei tassi di interesse provocati dall’inflazione, degli elevati debiti pubblici detenuti dai Paesi più ricchi, della sete energivora dei Paesi in via di sviluppo e dei dividendi attesi dagli azionisti che operano nei mercati delle materie prime, tanto da dover considerare gli Accordi di Parigi del 2015 come ormai definitivamente compromessi [1].
Considerato anche che, recentemente, gli attori principali dell’establishment politico europeo sembrano voler rimodulare le proprie ambizioni sui temi dell’agenda climatica [2], tradendola e talvolta additandola come il frutto di una mera ideologia, ne consegue che, probabilmente, con il progressivo acuirsi degli eventi climatici estremi, l’orizzonte che si staglierà dinnanzi ai nostri occhi sarà quello in cui si cercherà di far interiorizzare l’idea che, all’uopo di salvaguardare il millantato benessere assicuratoci dall’attuale modello di produzione e di consumo, gli effetti del cambiamento climatico dovranno ormai considerarsi come un male inevitabile, per quanto questo dovrà tradursi nel sacrificio della salute del nostro pianeta sull’altare del profitto. Eppure, proprio l’Europa si trova già nel novero dei continenti più colpiti dall’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico, con ricadute sulla sicurezza energetica e alimentare, gli ecosistemi, le infrastrutture, le risorse idriche, la stabilità economica e la salute dei cittadini, senza per questo trovarsi concretamente preparata ad affrontare simili criticità [3,4]. Stiamo parlando di una “nuova normalità” caratterizzata da un clima da incubo quotidiano in cui ci verrà probabilmente promulgato il messaggio secondo il quale non esistono vie d’uscita da questa situazione, se non quella di accettarne la convivenza a nostro rischio e pericolo e per un tempo indefinito.
Nel frattempo, giungono nuove avvisaglie che ci rammentano la gravità dell’incombenza in atto, come ad esempio i 62,3 °C percepiti a Rio de Janeiro, quando nello stesso momento il sud del Brasile risultava flagellato da piogge torrenziali [5], o ancora l’alluvione che ha recentemente funestato la Russia, provocando ingenti danni sul territorio ed evacuazioni di massa dei civili [6], nonché gli eventi metereologici estremi che in Kenya hanno seminato morte e distruzione, oltre a provocare un blackout di portata nazionale [7]. A mettere un ulteriore dito nella piaga, un working paper pubblicato nel 2019 dall’ONU, recante il titolo “Foreign aid and climate change policy”, ci informa che anche gli ingenti interventi economici stanziati per agevolare la transizione verde a seguito degli accordi di Parigi potrebbero non trovare conforto in auspicate legislazioni che siano effettivamente capaci di mitigare l’impatto del cambiamento climatico, specie per i Paesi in via di sviluppo, dal momento che fattori come la corruzione, gli sprechi e il malgoverno potrebbero ostacolare il raggiungimento degli obbiettivi climatici [8], come già denunciato anche dalla stampa “mainstream”[9], mentre la maggior parte degli indicatori utilizzati dagli studi scientifici per valutare l’impatto dei progetti realizzati per la mitigazione della minaccia climatica non hanno finora mostrato nessuna concreta relazione col clima, portando a risultati carenti sia sul piano della validità che dell’affidabilità. Pertanto, ad oggi, pare non esistano metodi robusti per verificare se le presunte misure mitigatrici adottate dai governi in materia ambientale possano realmente tradursi in un impatto positivo per il nostro pianeta.
Una simile cornice, probabilmente degna dei più inquietanti film di fantascienza ispirati alle realtà distopiche, non ci lascerebbe alcuna via di scampo, se non fosse che le affermazioni come quelle fatte da Jp Morgan sull’irraggiungibilità della neutralità climatica potrebbero non essere altro che un mero “wishful thinking” utile a tutelare il cinico e avido atteggiamento predatorio da parte di quei pochi che sfruttano il sistema capitalista a proprio vantaggio. Inoltre, risulterebbe fallace il messaggio secondo cui, stando così le cose, il mantenimento del nostro attuale sistema di produzione e di consumo potrà quantomeno continuare ad assicurarci un certo benessere, se pur sullo sfondo inquietante del cambiamento climatico. Infatti, secondo quanto riportato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), questo modello neoliberista potrebbe scontrarsi con un’emorragia occupazionale che, proprio a causa del cambiamento climatico, porterebbe alla scomparsa di 80 milioni di posti di lavoro già entro il 2030, solo per effetto dello stress indotto dalle ondate di calore, specialmente per quanto concerne il settore agricolo ed industriale [10]. Tra i Paesi più colpiti, avremo senz’altro l’India, che già dal 2019 vede 600 milioni di persone a rischio a causa dell’aumento delle temperature [11], come anche il Sud Africa, in cui sia la forza lavoro che la produttività potrebbero risentire pesantemente del cambiamento climatico [12], ma più in generale, uno studio scientifico condotto su 95 Paesi asserisce che le maggiori problematiche in termini occupazionali saranno sofferte dai Paesi che si collocano nella fascia del pianeta con latitudine compresa tra i 20 e i 40 gradi, pecie per l’occupazione maschile [13], sebbene anche in Italia, il cui meridione è pesantemente minacciato dalla siccità, e dove l’anno scorso un’intera regione come l’Emilia Romagna è stata messa in ginocchio dalle alluvioni, la situazione occupazionale e il benessere dei cittadini tendono sempre più a deteriorarsi [14, 15, 16], anche a dispetto della propaganda fatta dal nostro governo [17].
Come se non bastasse, sul piano della salute mondiale, il quadro appare oltremodo sconcertante, considerato che, sempre secondo l’ILO, ben 2,4 miliardi di lavoratrici e di lavoratori risulterebbero esposte/i a gravi rischi legati a fattori climatici e ambientali, quali radiazioni ultraviolette, aria inquinata nei luoghi di lavoro, contatto con pesticidi pericolosi, malattie provocate da agenti eziologici che si adattano a nuovi climi, ecc..[18]. Per fortuna e fuori da ogni retorica, una via d’uscita da questo labirinto potrebbe esistere e come, senza per questo compromettere il benessere dei popoli, e ci può essere fornita niente di meno che dalle classi lavoratrici: a corroborare una simile affermazione, già da diversi anni la letteratura scientifica ha prodotto degli studi che mettono in relazione l’aumento dell’occupazione e il miglioramento delle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori con la salute dell’ambiente. Ad esempio, Daniel Kono, studioso del Dipartimento di Scienze Politiche della Standford University, sostiene che nei Paesi in cui le lavoratrici e i lavoratori godono di maggiori protezioni sociali e assicurazioni contro la disoccupazione, i politici sono più inclini a ratificare misure per la riduzione delle emissioni prodotte dai combustibili fossili: un fenomeno conosciuto come “Ipotesi Compensativa” [19].
Anche un recente studio condotto da alcuni ricercatori cinesi, che mette in relazione diversi fattori economici e sociali che influiscono maggiormente sulle emissioni inquinanti, quali lo sviluppo economico, la globalizzazione, il consumo di energia, il turismo, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la tecnologia, il movimento di capitali, i trasporti, il regime politico, le rimesse, la povertà e la liberalizzazione del commercio, suggerisce come l’aumento dell’occupazione, unitamente ad un miglioramento delle competenze e dell’istruzione delle lavoratrici e dei lavoratori (capitale umano), oltre a migliorare aspetti come la salute, la qualità di vita, la partecipazione alla vita democratica, il clima sociale e il tasso di criminalità, conduca verso un sensibile abbattimento delle emissioni di CO2, tanto nel breve quanto nel lungo periodo, anche come conseguenza dell’adozione di stili di vita più consapevoli nei confronti dell’ambiente, ovvero basati sulla riduzione degli sprechi e sull’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, arricchendo la società di quell’humus culturale che potrebbe renderla matura per iniziare una vera rivoluzione verde [20]. A fornire possibili ricette per consentire alla classi lavoratrici di migliorare la propria condizione e, con essa, anche quella del nostro pianeta, già nel 2009, Bill Drayton, non certo un pericoloso bolscevico, ma un noto filantropo e “imprenditore sociale” (un tipo di attività che non è basata sul ritorno di profitti economici, ma su quello sociale, culturale e ambientale), aveva proposto un modello di fiscalità basato sulla drastica riduzione del costo del lavoro, al fine di aumentare sensibilmente l’occupazione, altresì aumentando le imposte sul consumo delle materie prime, al fine di disincentivarne lo spreco: una condizione che si verificò involontariamente già nel 1970 negli Stati Uniti, durante il periodo della crisi energetica, e che dimostrò tutta la sua efficacia [21]. Drayton parte dalla costatazione che solitamente le statistiche che mostrano i dati sulla disoccupazione sono pesantemente sottodimensionate rispetto alla realtà, allo scopo di nascondere sotto al tappeto la polvere delle inadempienze del potere politico in materia occupazionale (anche in Italia, ad esempio, se nel computo della disoccupazione fossero inclusi tutti coloro che lavorano solo poche ore a settimana a causa della precarietà, oggi la stima effettiva balzerebbe oltre la soglia del 20%), suggerendoci che occorre spostare l’equilibrio dei rapporti di forza sul versante dell’occupazione e tenerlo a distanza dal consumo delle risorse naturali.
Dovremmo, secondo il giudizio di Drayton, sostituire il consumo delle “cose” con quello dei servizi offerti dalla e alla persona, aumentando così il reddito delle fasce sociali più povere e l’inclusività nel mondo del lavoro, senza pesare tra l’altro sui debiti pubblici, ed evitando di scaricare il costo della transizione verde sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori, in modo da allargare il consenso dell’opinione pubblica verso l’adozione di pratiche a favore dell’ambiente e superare l’inerzia con cui si è cercato di ottenere dei progressi in materia ambientale dal 1970 ad oggi. Sempre secondo Drayton, simili misure potrebbero anche arrecare ulteriori vantaggi alla società, quali un miglioramento generalizzato della salute pubblica e il più facile reperimento di risorse da spendere come ammortizzatori sociali a beneficio di coloro che, per motivi di forza maggiore, si ritroveranno comunque escluse/i dal mercato del lavoro.
Dal momento che, per definizione, col termine “lotta di classe” si suole intendere quel processo socio-economico che passa anche per il miglioramento delle proprie condizioni di vita attraverso la conquista dei diritti per il lavoro, risulta chiaro come, alla luce di quanto discusso, una simile lotta coinciderebbe anche con la possibilità di salvaguardare il nostro pianeta dagli effetti del cambiamento climatico. Considerata l’inerzia con cui le classi dirigenti si stanno approcciando al problema dell’emergenza climatica, la liberazione del nostro pianeta dalle minacce ambientali che incombono non può passare che dal riscatto delle classi lavoratrici. Solo quest’ultime, in pratica, potrebbero essere le vere protagoniste della transizione verde che bisognerà necessariamente mettere in atto. Per tale motivo, al raggiungimento di uno stato di coscienza sulla propria condizione socio-economica, dovrà aggiungersi anche la consapevolezza che, fatalmente, la difesa del nostro pianeta si regge sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori. In quanto ecosocialisti, riteniamo che occorrano nuovi paradigmi per proseguire lungo il cammino che porta verso la liberazione dallo sfruttamento tra gli esseri umani, dal momento che la lotta per la conquista dei diritti sociali dovrà venire coniugata alla lotta per la giustizia climatica. Tutto ciò richiede l’introduzione un lessico aggiornato in ambito sindacale: non più un sindacalismo concepito secondo gli schemi novecenteschi tradizionali, ma un “ecosindacalismo” che, proprio nel rivendicare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, possa difendere l’umanità tutta dal pericolo di un collasso ambientale di portata planetaria. Quindi, è più che mai opportuno che coloro che sono sfruttati dal modo di produzione capitalistico facciano responsabilmente sentire la propria voce anche per la difesa dell’ecosistema, a partire dalla lotta per ottenere luoghi di lavoro e mezzi di produzione che non rappresentino una minaccia per l’ambiente e per la salute umana. Si, noi crediamo che il riscatto delle classi lavoratrici sfruttate sia tenuto a doppio filo con la liberazione del nostro pianeta dal cambiamento climatico. Pertanto, gridiamo: “Proletari dell’ecosistema, unitevi!”
Bibliografia:
[3] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/unione-europea-addio-alle-ambizioni-del-green-deal-171873
[4] https://www.eea.europa.eu/it/highlights/europa-impreparata-ad-affrontare-la
[5] https://www.open.online/2024/03/18/brasile-caldo-record-62-gradi-rio-de-janeiro/
[6] https://www.repubblica.it/esteri/2024/04/13/news/alluvioni_russia_evacuazione_orenburg-422518809/
[8] https://www.wider.unu.edu/publication/foreign-aid-and-climate-change-policy
[11] https://www.indiaspend.com/climate-change-farm-crisis-unemployment-2019-in-5-charts/
[12]https://www.unive.it/pag/16584/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=12927&cHash=ef5097eccae2539638d9ff0e93250de2
[13] https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0313592623002357
[16] https://www.innovationpost.it/attualita/in-italia-la-produttivita-ristagna-ancora-i-dati-dellistat/
[18] https://www.weforum.org/agenda/2024/05/climate-change-health-global-workforce/
[20] https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/1331677X.2022.2110139
[21] https://direct.mit.edu/itgg/article/4/4/49/9614/Engage-People-Retire-Things