Di Daniel Tanuro
Kohei Saito l’ha fatto di nuovo. Ne “L’ecosocialismo di Karl Marx: Critica incompiuta dell’economia politica”, il marxologo giapponese aveva mostrato come il maturo Marx avesse rotto con il produttivismo. [1] Il suo nuovo libro “Marx nell’Antropocene: Verso un’idea del comunismo della decrescita”, continua questa riflessione. [2]
Questo libro è notevole e utile su quattro punti in particolare: la natura fondamentalmente distruttiva di classe delle forze produttive capitaliste; la superiorità sociale ed ecologica delle società (cosiddette) “primitive”, senza classi; il dibattito sulla natura e la cultura con Bruno Latour e Jason Moore, in particolare; e infine, il grande errore degli “accelerazionisti” che invocano Marx per negare l’imperativa necessità della decrescita. Questi quattro punti sono di grande importanza politica oggi, non solo per i marxisti ansiosi di affrontare la sfida ecosociale posta dalla crisi sistemica del capitalismo, ma anche per gli attivisti ambientali. Il libro ha le stesse qualità del precedente: è erudito, ben costruito, sottile e illuminante nella sua presentazione dell’evoluzione intellettuale di Marx dopo il 1868. Purtroppo, ha anche lo stesso difetto: dà per scontato ciò che è solo ipotetico. Ancora una volta, Saito impone la linea per cercare di trovare in Marx la perfetta anticipazione teorica delle lotte di oggi.
In principio era la “frattura metabolica”
La prima parte di “Marx nell’Antropocene” approfondisce l’esplorazione del concetto di Marx della “frattura metabolica” ne “Il Capitale”. Saito segue le orme di John B. Foster e Paul Burkett, che hanno dimostrato l’immensa importanza di questa nozione. [3] Saito arricchisce la discussione evidenziando tre manifestazioni del fenomeno – interruzione dei processi naturali, la responsabilità territoriale, lo iato tra la temporalità della natura e del capitale – a cui corrispondono tre strategie capitalistiche di evasione – le soluzioni pseudo-tecnologiche, la delocalizzazione delle catastrofi in paesi dominati e il trasferimento delle loro conseguenze alle generazioni future (pag.29 e segg.).
Il capitolo 1 si concentra sul contributo al dibattito del marxista ungherese István Mészáros, che Saito considera decisivo nella riappropriazione del concetto di metabolismo alla fine del XX secolo. Il capitolo 2 si concentra sulla responsabilità di Engels che, nella redazione dei volumi II e III de “Il Capitale”, si dice abbia diffuso una definizione troncata della “frattura metabolica”, significativamente diversa da quella di Marx. Per Saito, questo cambiamento, lungi dall’essere casuale, rifletterebbe una divergenza tra la visione ecologica di Engels – limitata alla paura della “vendetta della natura” – e quella di Marx – incentrata sulla necessaria “gestione razionale del metabolismo” attraverso la riduzione dell’orario di lavoro. Il capitolo 3, ricordando le ambiguità di György Lukács, rende omaggio alla sua visione dello sviluppo storico del metabolismo della natura umana come continuità e rottura. Per Saito, questa dialettica, ispirata a Hegel (“identità di identità e non identità”) è indispensabile per differenziarsi sia dal dualismo cartesiano – che esagera la discontinuità tra natura e società – sia dal costruttivismo sociale – che esagera la continuità (identità) tra questi due poli e non può, quindi, “rivelare l’unicità del modo capitalista di organizzare il metabolismo umano con il loro ambiente” (p. 91).
Dualismo, costruttivismo e dialettica
La seconda parte del libro prende uno sguardo molto (ultra?) critico su altre teorie ecologiche di ispirazione marxista. Saito si distingue da David Harvey, che accusa di una “sorprendente reazione negativa alla svolta ecologica del marxismo.” “Marx nell’Antropocene” cita alcune “sorprendenti” citazioni del geografo americano: Harvey sembra convinto della “capacità del capitale di convertire qualsiasi ‘limite’ in semplici ‘barriere’”. Confessa che “L’invocazione dei limiti e della ‘scarsità ecologica’ (…) lo rende tanto politicamente nervoso quanto teoricamente sospettoso”; “una politica socialista che poggia sull’idea che la catastrofe ambientale sia imminente è un segno di debolezza” per lui. Un geografo come Harvey, Neil Smith “mostra la stessa esitazione davanti all’ambientalismo”, che chiama “apocalissismo” [apocalypsism, ndt.]. Smith è noto per la sua teoria della “produzione sociale della natura.” Saito lo respinge, sostenendo che incoraggia la negazione dell’esistenza della natura come entità autonoma, indipendente dagli esseri umani: questo è ciò che deduce dall’affermazione di Smith che “la natura non è nulla se non è sociale” (p. 111). Più in generale, Saito segue le concezioni costruttiviste ipotizzando che “la natura è un presupposto oggettivo della produzione.” Non c’è dubbio che questa visione fosse la stessa di Marx. Il fatto indiscutibile che l’umanità è parte della natura non significa che tutto ciò che fa è dettato dalla sua “natura”, né che tutto ciò che la natura fa è costruito dalla “società.”
Distruzione ecologica: “attanti” o profitto?
Nel contesto di questa controversia, l’autore dedica alcune pagine molto forti a Jason Moore. Ammette che la nozione di Capitalocene “segna un progresso teorico rispetto alla “produzione della natura”, perché enfatizza le interazioni uomo/ambiente. Tuttavia, Saito rimprovera Moore e la sua teoria che gli esseri umani e non umani sono “attanti” [o agenti, ndt.], all’opera in una rete il cui risultato è una matassa aggrovigliata o un “ibrido”, come viene definito da Bruno Latour. Questo è un punto importante. In effetti, Moore ritiene che distinguere una “frattura metabolica” all’interno della rete-matassa è un malinteso, il prodotto di una visione dualistica. La nozione di “metabolismo” si riferisce al modo in cui i diversi organi dello stesso organismo contribuiscono specificamente al funzionamento dell’insieme. E’ quindi l’antitesi del dualismo (così come del monismo) e qui torniamo alla formula di Hegel: c’è “identità di identità e non identità.” Marx nell’Antropocene attacca anche le tesi di Moore da un’altra angolazione: quella del lavoro. Per Moore, il capitalismo è guidato da un’ossessione per la “Natura a buon mercato”, che a suo parere comprende la forza lavoro, l’energia, il cibo e le materie prime. Moore sostiene di essere il seguace di Marx, ma è chiaro che la sua “Natura a buon mercato” sorvola sul ruolo esclusivo del lavoro astratto nella creazione di valore (surplus), così come sul ruolo chiave della corsa al plusvalore nella distruzione ecologica. Tuttavia, il valore non è un “attante ibrido”” tra gli altri. Come dice Saito, è una “forma puramente sociale” ed è attraverso di essa che il capitalismo “domina i processi metabolici della natura” (pp. 121-122).
È chiaro che la corsa al profitto è la causa del crescente il divario metabolico, specialmente in quanto richiede sempre più energia, lavoro, prodotti agricoli e materie prime “a buon mercato”. Di tutte le risorse naturali che il capitale trasforma in merci, la forza-lavoro “antropogenica”” è ovviamente l’unica capace di creare un indice puramente “antropogenico” come valore astratto. Come dice Saito: è “proprio perché la natura esiste indipendentemente e prima di quelle categorie sociali e continua a mantenere una non-identità con la logica del valore (che) il la preferenza per la massimizzazione del profitto si traduce in una serie di disarmonie all’interno del metabolismo naturale.” Pertanto, “il divario non è una metafora, come sostiene Moore. Esiste un divario tra il metabolismo sociale delle merci e il denaro e il metabolismo universale della natura” (ibid). Non fu dal dualismo cartesiano che Marx descrisse in modo dualistico il difetto tra metabolismo sociale e metabolismo naturale – così come il difetto tra lavoro produttivo e improduttivo. “Lo ha fatto consapevolmente perché le relazioni sociali uniche del capitalismo esercitano un potere estraneo nella realtà. Un’analisi critica di questo potere sociale richiede inevitabilmente una separazione tra il sociale e il naturale rispettivamente come campi di indagine indipendenti, e di analizzare in seguito eventuali collegamenti. “(p. 123) Inarrestabile. Non c’è dubbio, ancora una volta, che questa visione del “collegamento” del sociale con l’ambiente era di Marx.
Accelerazionismo vs. Anti-produttivismo
Il capitolo 5 polemizza contro un’altra varietà di marxisti: gli “accelerationisti di sinistra.” Secondo questi autori, le sfide ecologiche possono essere affrontate solo moltiplicando lo sviluppo tecnologico, l’automazione e così via. Questa strategia, per loro, è in linea con il progetto marxista: è necessario abbattere gli ostacoli capitalisti alla crescita delle forze produttive per rendere possibile una società dell’abbondanza. Questa parte del libro è particolarmente interessante perché mette in luce la rottura con il produttivismo e il prometeismo degli anni giovanili. La rottura probabilmente non è così forte come sostiene Saito, ma c’è sicuramente un punto di svolta. Nel Manifesto comunista, Marx ed Engels spiegano che “il proletariato userà la sua supremazia politica per strappare, gradualmente, tutto il capitale dalla borghesia, per centralizzare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato (…) e per aumentare le forze produttive totali il più rapidamente possibile.” È sorprendente che la prospettiva di questo testo sia decisamente statalista e che le forze produttive siano considerate socialmente neutrali; queste formano un insieme di cose che devono cambiare di mano (essere “strappate gradualmente alla borghesia”) per poter crescere quantitativamente.
Gli accelerazionisti sono giustificati nel rivendicare la continuità con Marx? No, perché Marx ha abbandonato la concezione esposta nel Manifesto. Saito richiama l’attenzione sul fatto che la sua opera principale “Il Capitale” non si occupa più delle “forze produttive” in generale, ma delle forze produttive storicamente determinate: le forze produttive capitaliste. Il lungo capitolo XV del volume 1 (“Macchine e industria moderna”) analizza gli effetti distruttivi di queste forze sulla società e l’ambiente. E potremmo aggiungere: non è un caso che proprio questo capitolo si concluda con la seguente frase, degna di un moderno manifesto ecosocialista: “La produzione capitalista, quindi, sviluppa la tecnologia e la combinazione di vari processi in un insieme sociale, solo indebolendo le fonti originali di ricchezza – il suolo e il lavoratore.” [4] Non si tratta più di neutralità tecnologica. Il capitale non è più inteso come una cosa, ma come un rapporto sociale di sfruttamento e distruzione che deve essere distrutto (“negazione della negazione”). Va notato che Marx, dopo la Comune di Parigi, specificò che la rottura con il produttivismo richiedeva anche la rottura con lo statismo.
È sorprendente che Saito non ricordi la frase de “Il Manifesto” sopra citata, dove il proletariato è esortato a prendere il potere per “aumentare le forze produttive totali il più rapidamente possibile.” Questo avrebbe dato ancora più risalto alla sua sottolineatura del cambiamento successivo. Ma non importa: il fatto è che la svolta è reale e porta ad una magnifica prospettiva di rivoluzione permanente, risolutamente anti-produttivista e anti-tecnocratica: “La libertà in questo campo può consistere solo nella socializzazione dell’uomo, dei produttori associati, nel regolare razionalmente il loro scambio con la Natura, portandola sotto il loro comune controllo, invece di essere governata da essa come dalle forze cieche della Natura; e raggiungere questo con il minor dispendio di energie e nelle condizioni più favorevoli e degne della loro natura umana. Ma rimane comunque un ambito di necessità. Al di là di esso inizia quello sviluppo dell’energia umana che è fine a se stessa, il vero regno della libertà, che, tuttavia, può sbocciare solo con questo regno di necessità come base. L’accorciamento della giornata lavorativa è il suo prerequisito fondamentale.” [5] L’evoluzione è chiara. Il paradigma dell’emancipazione umana è cambiato: non consiste più nella crescita delle forze produttive ma nella gestione razionale degli scambi con la natura e tra gli uomini.
Assimilazione formale e reale del lavoro
Le pagine più ricche di “Marx nell’Antropocene”, a mio parere, sono quelle in cui Saito dimostra che il nuovo paradigma marxista dell’emancipazione è il risultato di un ampio sforzo di critica delle forme successive che il capitale ha imposto al lavoro. Nonostante facesse parte del lavoro preparatorio per “Il Capitale”, questa critica venne pubblicata solo più tardi (ne “Manoscritti del 1861-1863”). La sua chiave di volta è l’importante nozione di assimilazione del lavoro al capitale. Sottolineiamo il seguente passaggio: l’assimilazione è più della sottomissione. L’assimilazione implica l’integrazione di un soggetto a qualcosa che assimila. Il capitale assimila il lavoro salariato in quanto integra la forza lavoro come capitale variabile. Ma, per Marx, c’è assimilazione e assimilazione: il passaggio dalla produzione ai macchinari e alla grande industria implica il passaggio da “assimilazione formale” ad “assimilazione reale.” Il primo significa semplicemente che il capitale prende il controllo del processo di lavoro che esisteva prima, senza apportare cambiamenti né alla sua organizzazione né al suo carattere tecnologico. Il secondo prende piede dal momento in cui il capitale rivoluziona completamente e continuamente il processo di produzione – non solo a livello tecnologico. ma anche a livello di cooperazione – cioè delle relazioni produttive tra lavoratori e tra lavoratori e capitalisti. Si crea così un metodo di produzione specifico e senza precedenti, interamente adattato agli imperativi dell’accumulazione del capitale. Un metodo in cui, a differenza del precedente, “l’ordine capitalista si trasforma in un requisito per portare il processo del lavoro stesso ad una condizione reale di produzione” (p. 148).
Saito non è il primo a sottolineare la natura di classe delle tecnologie. Daniel Bensaïd ha sottolineato la necessità di sottoporre le stesse forze produttive ad un esame critico. Michaël Löwy sostiene che non è sufficiente distruggere l’apparato statale borghese, ma che anche l’apparato produttivo capitalista deve essere smantellato. Tuttavia, siamo grati a Saito per essersi attenuto il più possibile al testo di Marx per riassumere le implicazioni a cascata della vera assimilazione del lavoro: “aumenta notevolmente la dipendenza del lavoratore dal capitale”; “le condizioni oggettive per la realizzazione delle capacità dei lavoratori appaiono sempre più come un potere straniero e indipendente”; “nella misura in cui il capitale come lavoro oggettivato – mezzi di produzione – impiega una forza lavoro, il rapporto soggetto-oggetto si inverte nel processo lavorativo”; “poiché il lavoro è incarnato nel capitale, il ruolo del lavoratore è ridotto a mero portatore di una cosa reificata, cioè dei mezzi di conservazione e valorizzazione del capitale accanto alle macchine, e la cosa reificata ottiene l’apparenza della soggettività che controlla come potere estraneo il comportamento e la volontà della persona”; “Poiché l’aumento delle forze produttive è possibile solo sotto l’iniziativa e la responsabilità del capitale, le nuove forze produttive del lavoro sociale operaio non appaiono come proprie forze produttive, ma come ‘forze produttive del capitale'”; “Il lavoro vivo (quindi) diventa una potenza del capitale, tutto lo sviluppo delle forze produttive del lavoro è lo sviluppo delle forze produttive del capitale.” Due conclusioni non produttiviste e non tecnologiche vengono allora imposte: 1) “dal momento che lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo aumenta solo il potere estraneo del capitale privando i lavoratori delle loro capacità soggettive, conoscenze e intuizioni, non apre automaticamente la possibilità di un chiaro futuro luminoso”; 2) “Il concetto di forze produttive di Marx è in realtà più ampio” di quello delle forze produttive capitaliste: “include capacità produttive umane come abilità, conoscenza e forza” ed è “in questo senso, sia quantitativo che qualitativo” (pp. 149-150).
Quale materialismo storico? Quale abbondanza?
Questi sviluppi portano Saito a riesaminare il materialismo storico. È noto che la “Prefazione alla Critica dell’Economia Politica” contiene l’unico riassunto della teoria di Marx, il quale afferma:
Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti o – esprimendo semplicemente lo stesso concetto in termini giuridici – con i rapporti di proprietà nel cui quadro hanno operato finora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, queste relazioni si trasformano nelle loro catene. Inizia allora un’era di rivoluzione sociale. [6]
Sembra chiaro che Marx non potesse più aderire letteralmente a questa formula – né tanto meno a quella del “Manifesto” sulla crescita quantitativa delle forze produttive – poiché la sua analisi lo portò a concludere che lo sviluppo di queste forze rafforza la presa del capitale e distrugge la capacità di agire di coloro che vengono sfruttati. Come dice Saito:
Non si può più supporre che una rivoluzione socialista possa semplicemente sostituire i rapporti di produzione con altri dopo aver raggiunto un certo livello di forze produttive. Dal momento che le ‘forze produttive del capitale’ che emergono attraverso la vera assimilazione sono materializzate e cristallizzate nel modo di produzione capitalista, esse scompaiono insieme al modo di produzione capitalista.” Trasferire la proprietà del capitale allo Stato non cambierebbe il problema: poiché le forze produttive resterebbero invariate, (1) la progettazione dovrebbe essere svolta da una “classe burocratica”, (2) la distruzione ecologica continuerebbe. L’autore conclude che “la vera assimilazione genera un vero dilemma di ‘libera gestione socialista’ per il quale la visione tradizionale del materialismo storico non fornisce alcun indizio” e “Marx non era in grado di fornire una risposta definitiva a questi problemi nemmeno ne “Il Capitale”, perciò bisogna andare oltre (pp. 157-158).
Il concetto di “andare oltre” che viene proposto nella terza parte del libro, ed è ciò che solleva le maggiori controversie. La domanda di partenza è semplice: se l’emancipazione non viene attraverso la libera crescita delle forze produttive, e quindi attraverso quello che Daniel Bensaid chiamava il “joker dell’abbondanza”, come può accadere? Da cui “la necessità di ridimensionare e rallentare la produzione”, secondo Saito (p. 166). Per l’autore, in sostanza, l’abbondanza deve essere intesa non come una pletora di beni materiali privati – sul modello che è al tempo stesso consumistico ed escludente dell’accumulo di merci accessibili solo alla domanda solvibile – ma come una profusione di ricchezza sociale e naturale comune. Senza questo, “l’opzione rimanente diventa il controllo burocratico della produzione sociale, che ha portato al fallimento di questo percorso sovietico” (p. 166).
Decrescita, economia stazionaria e transizione
“Marx nell’Antropocene” intende quindi invocare un “comunismo decrescente” profondamente egualitario, incentrato sulla soddisfazione dei bisogni reali. Secondo Saito, questo comunismo era quello delle cosiddette comunità “arcaiche”, alcune delle cui caratteristiche sopravvissero a lungo in forme più o meno degradate nei sistemi agrari basati sulla proprietà collettiva della terra, in particolare in Russia. Per il Marx maturo, è molto più che una questione di sopravvivenza di un passato ormai lontano: queste comunità indicano che dopo aver “espropriato gli espropriatori” la società, per abolire ogni dominio, dovrà avanzare verso una forma superiore di comunità “arcaica”. Sottoscrivo pienamente questa prospettiva, ma con un avvertimento: Saito sta seriamente esagerando affermando che Marx arrivò nel 1881 “all’idea del comunismo decrescente” “dopo aver studiato seriamente le scienze naturali e le società pre-capitaliste dopo il 1868” (p. 242). Preso alla lettera, non si basa su alcun documento conosciuto. Per poter avere ancora un briciolo di plausibilità (e comunque finché è formulato come un’ipotesi, non come una certezza!) Saito è costretto a ricorrere ad una serie di associazioni: ad agire come se la critica radicale di Marx dell’accumulazione capitalista fosse la stessa di (un appello a?) un’economia stazionaria, come se le comunità “arcaiche” fossero stazionarie e come se l’economia stazionaria fosse la stessa della decrescita. È una serie lunghissima di “se”, trascura differenze essenziali e non ci fa progredire nel dibattito sulla posta in gioco della decrescita, nel senso in cui viene discusso oggi tra anticapitalisti, cioé nel senso letterale della riduzione della produzione imposta oggettivamente dal vincolo climatico. Scendiamo più nel dettaglio.
Lasciamo da parte il PIL e consideriamo solo la produzione materiale: una società post-capitalista in un paese molto povero romperebbe con la crescita capitalista, ma dovrebbe aumentare la produzione per un certo periodo di tempo per soddisfare l’enorme massa di reali bisogni insoddisfatti; un’economia stazionaria utilizzerebbe ogni anno la stessa quantità di risorse naturali per produrre la stessa quantità di valori d’uso con le stesse forze produttive. Un’economia decrescente, invece, ridurrebbe l’estrattivismo e la produzione. Mettendo un segno di uguaglianza tra queste forme, Saito genera confusione. “Ormai dovrebbe essere chiaro”, scrive, “che il socialismo promuove una transizione sociale verso un’economia decrescente” (p.242). Questa terminologia è sbagliata, perché la decrescita non è un progetto sociale, sebbene un vincolo che pesa sulla transizione. Una “economia decrescente” in quanto tale non significa nulla. Alcune produzioni devono aumentare e altre diminuire all’interno di una diminuzione generale.
Per attenerci alla diagnosi scientifica del cambiamento climatico dobbiamo dire qualcosa del genere: la pianificazione democratica di una decrescita equa è l’unico modo per passare razionalmente all’Ecosocialismo. In effetti, siccome un nuovo sistema basato al 100% sulle energie rinnovabili deve necessariamente essere costruito con le energie del sistema attuale (che sono all’80% combustibili fossili, quindi una fonte di CO2), ci sono fondamentalmente solo due strategie possibili per eliminare le emissioni: o riduciamo drasticamente il consumo finale di energia (che implica produrre e trasportare meno complessivamente) adottando forti misure anticapitaliste (contro il 10%, e soprattutto l’1% più ricco); o scommettiamo sulla compensazione delle emissioni di carbonio e sulla futura diffusione massiccia di ipotetiche tecnologie di cattura-sequestro del carbonio, di cattura-uso oppure di geoingegneria, ovvero su soluzioni da apprendista stregone che portano ad ancora più espropriazione, disuguaglianze sociali e distruzione ecologica. Proponiamo l’espressione “decrescita giusta” come asse strategico dei marxisti anti-produttivisti di oggi. Rendere la decrescita sinonimo di economia stazionaria non è un’opzione, perché equivale ad abbassare il volume dell’allarme antincendio.
La comune rurale Russa, rivoluzione ed ecologia
La prospettiva di una decrescita giusta deve molto all’enorme lavoro pionieristico di Marx, ma non ha senso affermare che egli ne sia stato il progettista, perché Marx non ha mai esplicitamente sostenuto una diminuzione netta della produzione. Per renderlo il padre del “comunismo decrescente”, Saito si basa quasi esclusivamente su un testo famoso ed eccezionalmente importante: la lettera a Vera Zasulich. [7] Nel 1881, la populista russa aveva chiesto a Marx per lettera la sua opinione sulla possibilità di fare affidamento sulla comunità contadina in Russia per costruire direttamente il socialismo, senza passare attraverso il capitalismo. La traduzione russa de “Il Capitale” aveva suscitato un dibattito su questa questione tra gli oppositori dello zarismo. Marx scrisse tre bozze di risposta, le quali attestano la sua profonda rottura con la visione lineare dello sviluppo storico, e quindi anche con l’idea che i paesi capitalisti più avanzati sono i più vicini al socialismo. A questo proposito, l’ultima frase è chiarissima: “Se la rivoluzione avrà luogo, se concentrerà tutte le sue forze [se la parte intelligente della società russa] [se l’intellighenzia russa (l’intelligence russa) concentrerà tutte le forze vive del Paese] per assicurare l’ascesa libera della comunità rurale, quest’ultima si svilupperà presto come un elemento rigenerante della società russa e un elemento di superiorità sui paesi schiavizzati dal regime capitalista.” [8]
Per Saito, questo testo significa che il degrado ambientale capitalista aveva portato Marx, dopo il 1868, ad “(abbandonare) il suo precedente schema di materialismo storico. Non era un compito facile per lui, dice Saito. La sua visione del mondo era in crisi. In questo senso, (la sua) ricerca intensiva nei suoi ultimi anni [sulle scienze naturali e le società pre-capitaliste, D.T.] era un tentativo disperato di ricostruire e riformulare la sua concezione materialista della storia da una prospettiva completamente nuova, risultando in una concezione totalmente nuova della società alternativa” (p. 173). “Quattordici anni di ricerca”, ha portato Marx a “concludere che la sostenibilità e l’uguaglianza basate su un’economia di stato stabile è la fonte del potere per resistere al capitalismo.” Ha quindi colto “l’opportunità di formulare una nuova forma di regolamentazione razionale del metabolismo umano con la natura in Europa occidentale e negli Stati Uniti”: “l’economia stazionaria e circolare senza crescita economica, che Marx una volta definì come la stabilità regressiva delle società primitive senza storia” (pp. 206-208).
Che cosa dobbiamo fare di questa ricostruzione del percorso del pensiero marxista in modo ecologico? La narrazione ha molto fascino in alcuni ambienti contemporanei, questo è ovvio. Ma perché Marx attese fino al 1881 per esprimersi su questo punto chiave? Perché lo fece solo per lettera? Perché questa lettera ha richiesto tre bozze successive? Se Marx avesse veramente cominciato a “riconsiderare il suo precedente schema teorico negli anni 1860 a causa del degrado ecologico provocato dallo sviluppo capitalista” (p. 204), e se il concetto di scissione metabolica fosse davvero servito come “mediazione” nei suoi sforzi per rompere con l’eurocentrismo e il produttivismo (p. 200), perché la superiorità ecologica della comunità rurale non è menzionata una sola volta nella risposta a Zasulich? Ultimo punto, ma non meno importante: mentre non si può escludere che l’ultima frase di questa risposta proietti la visione di un’economia post-capitalista stazionaria per l’Europa occidentale e gli Stati Uniti, questo non è il caso della Russia; Marx insiste fortemente sul fatto che solo beneficiando del livello di sviluppo dei paesi capitalisti sviluppati il socialismo in Russia può “assicurare l’ascesa illimitata della comunità rurale.” Alla fine, l’intervento di Marx nel dibattito russo sembra derivare molto di più dalla sua ammirazione per la superiorità delle relazioni sociali nella società “arcaica” e il suo impegno militante per l’internazionalizzazione della rivoluzione piuttosto che dalla centralità della crisi ecologica e l’idea di “comunismo della decrescita.”
“Offrire qualcosa di positivo”
L’affermazione categorica che Marx inventò questo “comunismo della decrescita” per riparare la “frattura metabolica” è così eccessiva che ci si chiede perché Saito la formuli a conclusione di un lavoro che contiene tante eccellenti riflessioni. La risposta è data nelle prime pagine del capitolo 6. Di fronte all’emergenza ecologica, l’autore introduce la necessità di una risposta anticapitalista, ritiene che le interpretazioni produttiviste del marxismo siano “indifendibili”, nota che il materialismo storico è “attualmente impopolare” tra gli ambientalisti, e considera questo come “un peccato, considerando il loro comune interesse nel criticare il desiderio insaziabile del capitale per l’accumulazione, anche se da prospettive diverse” (p. 172). Per Saito, i documenti che mostrano che Marx si allontanò dalle concezioni lineari del progresso storico o che si interessò all’ecologia “non sono sufficienti per dimostrare perché i non-marxisti hanno ancora bisogno di preoccuparsi dell’interesse di Marx per l’ecologia oggi” (p. 173). “Una nuova interpretazione di Marx diventa interessante solo se si guarda ai problemi dell’eurocentrismo e del produttivismo ” (p. 199). “Gli studiosi di Marx devono offrire qualcosa di positivo”, “elaborare la sua visione positiva della società post-capitalista” (p. 173). È allora per dare questa “nuova interpretazioneche secondo Saito Marx fondò successivamente e a distanza di pochi anni l’”ecosocialismo” e poi il “comunismo della decrescita”? Mi sembra plausibile, e quindi più convincente, considerare che Marx non era né ecosocialista né sostenitore della decrescita, almeno nel senso contemporaneo di questi termini. Ciò non toglie che la sua penetrante critica del produttivismo capitalista e il suo concetto di “scissione metabolica” siano decisivi nel cogliere l’urgente necessità di una ” decrescita giusta.”
Associare per forza la decrescita al pensiero di Marx è anacronistico. Non è necessario. Naturalmente, non si può difendere solo la decrescita e mantenere in parallelo la versione produttivista quantitativa del materialismo storico. D’altra parte, la sola decrescita si inserisce facilmente in un materialismo storico che considera le forze produttive nelle loro dimensioni quantitative e qualitative. In ogni caso, non abbiamo bisogno dell’approvazione di Marx, né per ammettere la necessità di una giusta decrescita, né più in generale per ampliare e approfondire la sua “critica incompiuta dell’economia politica.”
Il problema dell’usare un tono apologetico
Qualcuno potrebbe mettere in dubbio l’utilità di una critica delle esagerazioni di Saito. Si potrebbe dire: la linea di fondo è che questo libro può “produrre utili spunti di riflessione per i socialisti e gli attivisti ambientalisti, indipendentemente dal fatto che ci si chieda (o ci si preoccupi!) se Marx è stato ‘davvero’ un comunista della decrescita o no.” [9] Questo è il punto principale, infatti, e vale la pena ripeterlo: “Marx nell’Antropocene” è un libro eccellente, anche perché il suo sviluppo sui quattro punti menzionati nell’introduzione a questo articolo è di grande rilevanza e importanza. Tuttavia, il dibattito su ciò che Marx ha detto o non ha detto non deve essere sottovalutato, perché riguarda la metodologia da praticare nell’elaborazione degli strumenti intellettuali necessari per la lotta ecosocialista. Tuttavia, questa domanda riguarda anche gli attivisti non marxisti.
Il metodo di Kohei Saito ha un difetto: è apologetico. Questo tratto era già percepibile ne “L’ecosocialismo di Marx”: mentre il sottotitolo del libro indicava la “critica incompiuta dell’economia politica”, l’autore paradossalmente vi dedica un intero capitolo ad agire come se Marx, dopo “Il Capitale”, avesse sviluppato un progetto ecosocialista completo. “Marx nell’Antropocene” segue lo stesso percorso, ma ancora più chiaramente. Considerate nel loro insieme, le due opere danno l’impressione che Marx, negli anni ’70 dell’Ottocento, giunse a considerare l’interruzione del metabolismo della natura umana come la contraddizione centrale del capitalismo, che ne dedusse prima un progetto di crescita ecosocialista delle forze produttive, e poi abbandonato intorno al 1880-81 per tracciare un nuovo corso: “il comunismo della decrescita.” Ho cercato di dimostrare che questa narrazione è altamente discutibile.
Uno dei problemi di questo tono apologetico è che sopravvaluta enormemente l’importanza dei testi. Ad esempio, Saito dà importanza sproporzionata alla modifica di Engels del passaggio da “Il Capitale”, volume III, dove Marx parla della “scissione metabolica.” Il predominio delle interpretazioni produttiviste del materialismo storico nel corso del XX secolo non può essere spiegato principalmente da questa modifica: essa deriva principalmente dal riformismo delle grandi organizzazioni e dalla sottomissione del proletariato al capitale. Lottare contro questa situazione, articolare resistenze sociali per mettere l’ideologia del progresso in crisi all’interno del mondo del lavoro stesso, è oggi il principale compito strategico degli Ecosocialisti. Le risposte si trovano nelle lotte e nell’analisi delle lotte molto più che nei quaderni di Marx.
Più fondamentalmente, le scuse tendono a flirtare con il dogmatismo. “l’ha detto Marx” diventa troppo facilmente il mantra che ci impedisce di vedere e pensare come marxisti su ciò che Marx non ha detto. Ovviamente, non ha detto tutto. Se c’è una lezione metodologica da trarre dalla sua monumentale opera, è che la critica è fertile e il dogma è sterile. La capacità dell’ecosocialismo di affrontare le formidabili sfide della catastrofe ecologica capitalista dipenderà non solo dalla sua fedeltà, ma anche dalla sua creatività e dalla sua capacità di rompere con le proprie idee precedenti, come fece Marx quando necessario. Non si tratta solo di lucidare con cura l’ecologia di Marx, ma anche, e soprattutto, di svilupparla e radicalizzarla.
NOTE
[1] Karl Marx’s Ecosocialism: Capital, Nature, and the Unfinished Critique of Political Economy, Monthly Review Press, 2017.
[2] Marx in the Anthropocene. Towards the Idea of Degrowth Communism. Cambridge University Press, 2022.
[3] See in particular Paul Burkett, Marx and Nature. A Red and Green Perspective. Palgrave Macmillan, 1999. John Bellamy Foster, Marx’s Ecology. Materialism and Nature, Monthly Review Press, 2000.
[4] In The German Ideology (1845-46) we read: “In the development of productive forces there comes a stage when productive forces and means of intercourse […] are no longer productive but destructive forces (machinery and money)”. Karl Marx and Friedrich Engels, The German Ideology “Part I: Feuerbach. Opposition of the Materialist and Idealist Outlook D. Proletarians and Communism“.
[5] Capital volume III Part VII. Revenues and their Sources, Chapter 48. The Trinity Formula.
[6] Karl Marx, 1851, A Contribution to the Critique of Political Economy “Preface”.
[7] Marx-Zasulich Correspondence 1881,“K. Marx: Drafts of a reply”.
[8] Ibid The ‘First’ Draft.
[9] Diana O’Dwyer, “Was Marx a Degrowth Communist”.
Traduzione a cura di Matilde Revelli
Fonte: https://internationalviewpoint.org/spip.php?article8456