di Lupo – Controtempi
Lunedì 4 maggio inizierà la cosiddetta “Fase 2”. Il governo ha infine ceduto alle pressioni degli industriali. Molte sono le incognite, i rischi. Innanzitutto per la salute di tutti noi e in particolare dei lavoratori costretti a riprendere gli spostamenti e il lavoro. Ma anche per l’evoluzione della liberal-democrazia italiana. Al netto dell’eventualità che le misure prese in questi mesi dal governo forniscano il precedente per future dichiarazioni di “stati di emergenza”, rimane la questione: che via di uscita immaginare per la crisi sociale che si è aperta? Questo testo si inserisce nel ciclo inaugurato con quest’articolo e proseguito con con quest’intervento e con questo.
A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici1.
Quando l’“emergenza coronavirus” è esplosa, con il susseguirsi sincopato di provvedimenti più o meno restrittivi delle libertà personali, molti di noi hanno immediatamente denunciato il pericolo di una deriva antidemocratica insita nei decreti governativi. Eravamo alla fine di febbraio, il contagio era limitato ad alcuni piccoli comuni del lodigiano e del Veneto. L’#iorestoacasa era ancora di là da venire, ma già sui giornali e in televisione si parlava di «stato d’emergenza»2, di «assedio»3, di «psicosi»4…
Un terrorismo psicologico montante i cui effetti non tardarono a manifestarsi. Negli stessi giorni, con la classica dinamica da profezia auto-avverantesi, la isteria da coronavirus si diffondeva realmente. Con il portato contraddittorio tipico delle reazioni irrazionali e dei comportamenti emotivi di massa, i supermercati venivano presi d’assalto e svuotati da folle che si accalcavano intorno agli scaffali, favorendo così il contagio, alla ricerca dell’ultimo rotolo di carta igienica o dell’ultima confezione di Amuchina. I prezzi dei disinfettanti per la persona schizzavano alle stelle (la bellezza del libero mercato…). La credenza, a partire da semplificazioni e travisamenti, nella bontà di azioni o più spesso di oggetti apotropaici, si diffondeva a macchia d’olio (la mascherina, che ha una funzione soltanto nel caso in cui a indossarla è una persona infetta, diventava lo scudo da brandire contro il diffondersi della malattia).
L’individualismo come ideologia dominante, l’assenza di un senso critico diffuso tra le persone si fonde e si alimenta della sistematica prostituzione dell’informazione, la sua riduzione a spettacolo e quindi a merce da vendere al miglior offerente. Notizie-scandalo, titoli urlati, con il principale fine di indurre il cliente ad acquistare il giornale o ad aprire il sito. La mercificazione dell’informazione, propria della sussunzione delle notizie al ciclo di valorizzazione del capitale, genera robot. Ancor più in epoca di crisi. Il panico sociale che a fine febbraio abbiamo conosciuto non è stata l’unica conseguenza del terrorismo giornalistico. Come scrivevamo nelle Note per un dibattito sulla pandemia:
Se già nei tempi “normali” manca una direzione consapevole, un progetto, un’idea di come dovrebbe funzionare il mondo, se già in epoca normale è difficile governare (le continue convulsioni politiche lo testimoniano) e le classi dominanti si limitano a gestire l’esistente, a dominare e non dirigere, nelle epoche di crisi tutto si fa ancora più difficile, se non letteralmente impossibile. La crisi diventa il catalizzatore di tutte le contraddizioni che covavano sotto le ceneri, le quali scoppiano allo stesso tempo e in forma violenta e radicale (cioè attaccando le radici della società).
Del tutto in linea con l’informazione-spettacolo, la politica-spettacolo segue l’andamento rapsodico della giornata. Nonostante esista dal 2007 un piano preventivo contro le pandemie influenzali del Ministero della Salute, in pochi giorni a Milano Beppe Sala passava dalla blindatura preventiva al #milanononsiferma; in Veneto Zaia alternava la richiesta di una revoca del cosiddetto lockdown all’annunciare che quella di Covid-19 è «la pandemia del secolo»5; in Lombardia Fontana passava dall’emanare l’ordinanza dell’11 aprile che vietava l’apertura delle librerie (stabilita a livello nazionale) a dichiarare, il 16 aprile, che era fondamentale riaprire completamente tutte le attività produttive in capo a pochi giorni.
Quest’atteggiamento ondivago e irresponsabile manifesta fondamentalmente la necessità di tenere assieme interessi contrapposti e irriducibili: la salute pubblica della collettività da una parte e l’esigenza di recepire le pressioni della borghesia, terrorizzata dalla crisi economica galoppante. Come, mostrato molto bene da Report, la borghesia ha infatti delle responsabilità pesantissime sul dilagare dell’epidemia. Se a fine febbraio non si è creata una zona rossa in Val Seriana è colpa degli imprenditori locali che hanno fatto pressioni sui sindaci e sulla Regione perché le fabbriche della zona potessero rimanere aperte.
A tutto ciò si aggiunge la beffa: il presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista a TPI, dà infatti tutta la colpa… agli animali. Sì, proprio così. Bonometti, riguardo agli animali delle aziende agricole della val Seriana, afferma:
Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione, anche se un’altra causa è che si tratta di zone densamente popolate da industrie e quindi la movimentazione delle merci e della gente ha certamente favorito. Non all’interno delle fabbriche, però, perché le fabbriche sono considerate per noi i luoghi più sicuri.
Evidentemente il Presidente Bonometti non ha mai visto una fabbrica in vita sua. In ogni caso lo invitiamo a passare la quarantena in fabbrica invece che a casa, se si sente più sicuro.
Intanto, come certifica l’Istat, il 55% dei lavoratori continua ad andare a lavorare nonostante il lockdown, quindi a esporsi a un potenziale rischio di contagio e morte. Cosa che avviene, vista l’assenza di dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti persino per i medici.
Su una cosa però, sia a livello locale che nazionale, c’è stata continuità nelle decisioni della classe dirigente. La scelta di gestire il problema sanitario come un problema di ordine pubblico. Militarizzazione, controllo, responsabilizzazione individuale: questi sono stati i tre veri pilastri della gestione della crisi sanitaria.
Da qui le preoccupazioni che citavamo in incipit. Spesso schernite come una risposta “ideologica” al problema (e in certi casi pagando lo scotto della contingenza, è il caso ad esempio dell’intervento di Agamben sul Manifesto, che definiva l’epidemia «supposta»), segnalano però un problema reale: in che modo la militarizzazione e il controllo si inseriscono nelle tendenze sociali e politiche già in atto da tempo?
Senza pretendere di dare una risposta esaustiva, si potrebbe dire che la strenua difesa degli interessi della borghesia si manifesta come accentuazione dei caratteri autoritari nella gestione dell’esistente. Un’accentuazione che muta i contorni della stessa liberal-democrazia, le cui istituzioni sono sempre più svuotate della funzione democratica, seppur rappresentativa. Un processo che alcuni autori hanno definito post-democrazia6 proprio per indicare il carattere transitorio tra la liberal-democrazia “classica” e un autoritarismo di cui si intravedono i prodromi ma che non è ancora giunto a maturazione.
Ci riserviamo di tornare su questa questione in altra sede. Quel che ci preme sottolineare ora è che questo processo non è affatto un processo lineare. Da una parte vediamo infatti il diffondersi, favorito anche dall’incredibile sviluppo informatico degli ultimi decenni, di sistemi di controllo e quindi di coercizione sempre più raffinati7. Sistemi che vengono immediatamente dati in preda alla valorizzazione capitalistica: basti pensare ai dati immessi dagli utenti che utilizzano internet, che vengono elaborati e venduti (ricavando così un profitto) dalle grosse compagne informatiche come Facebook o Google. L’estensione quantitativa dei dispositivi informatici contribuisce a mutare le caratteristiche dei rapporti di potere, accelerando i processi di transizione verso una società post-democratica.
Tuttavia, dall’altra questo processo si scontra con l’intrinseca necessità del capitale di non conoscere alcun limite al proprio movimento, sia che questo limite sia “interno” (il rapporto tra capitale, lavoro e territorio nello Stato nazione) sia che sia “esterno” (lo scontro tra capitali internazionali e l’imperialismo).
E se – per esprimerci con Bensaïd – nel caso dell’imperialismo la contraddizione si manifesta come «l’estensione spaziale del capitale a livello di un mercato mondiale “senza frontiere” da una parte, e l’organizzazione territoriale e statale dello sviluppo diseguale dall’altra»8, nel caso dei limiti al movimento capitalistico “interno” la contraddizione si manifesta invece in due modi: come scontro tra i diversi settori della borghesia e tra la borghesia e la sua espressione politica, il governo (le alte grida di rimprovero che in questi giorni Confindustria continua a lanciare contro il governo italiano ne sono la manifestazione più lampante); come tensione irrisolvibile tra l’aumento dei dispositivi di controllo sociale e la necessità del singolo borghese di agire individualisticamente al di fuori e al di sopra di ogni norma per fare profitto.
Ora, certamente le tendenze verso un’involuzione post-democratica prescindono l’attuale crisi sanitaria. Ma, come tutti i periodi di crisi, da una parte la situazione che stiamo vivendo può fornire combustibile per una loro accelerazione (l’Ungheria di Orbán, in cui il Parlamento e le elezioni sono state sospesi a tempo indeterminato, lo dimostra in modo quasi ideal-tipico), dall’altra aprono una serie di possibilità virtuali future, la cui realizzazione dipende soltanto dalla lotta politica.
Ecco allora, come la già citata analisi di Agamben può diventare utile. Non perché fotografa il reale né perché lamenta una presunta strumentalizzazione della pandemia (che pure può esserci e in alcuni casi c’è). Ma perché solleva il problema della soluzione all’attuale crisi sociale. Una soluzione che non può semplicemente essere frutto di automatismi incontrollabili ma dev’essere invece frutto di un processo di decisione collettiva e democratica.
Qui la continuazione, sul rapporto tra pandemia e crisi economica.
Note
1A. Gramsci, Quaderni del carcere [1929-1935], a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2014, Q13, §23, pp. 1602-1603.
2Il Piccolo 23 febbraio 2020.
3Il Gazzettino, 23 febbraio 2020; Corriere del Mezzogiorno, 23 febbraio 2020.
4Il Giornale Milano, 23 febbraio 2020.
5Il Gazzettino, 23 marzo 2020.
6Vedi M. Nobile, Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari Editore, Grotte di Castro 2012
7Rimandiamo a questo interessante articolo dei Wu Ming
8D. Bensaïd, Elogio della politica profana, trad. di A. Ciappa, Alegre, Roma 2013, p. 275.